Date: Thu, 4 Nov 2010 21:44:10 +0100 From: Lenny Bruce Subject: Altri Viaggi - Chapter 1 DISCLAIMER: The following story is a fictional account of young teenage boys who are in love. There are references and graphic descriptions of gay sex involving minors, and anyone who is uncomfortable with this should obviously not be reading it. All characters are fictional and any resemblance to real people is purely coincidental. Although the story takes place in actual locations and establishments, the author takes full responsibility for all events described and these are not in any way meant to reflect the activities of real individuals or institutions. The author retains full copyright of this story. Questo è il primo degli otto capitoli che compongono questo romanzo. Altri Viaggi 1. MARCO Molto tempo prima, prima che tutto accadesse, Marco era stato il mio caposquadriglia nei boyscout. Allora ero quasi innamorato di lui. Mi telefonò all'ora di pranzo. Se pranzo poteva dirsi l'infelice riunione della mia famiglia, o di ciò che ne restava. Già tre mesi, solo tre mesi, e un'eternità di silenzio. Mia madre ed io a quell'ora, puntuali senza averne motivo, trascorrevamo insieme un tempo, ragionevolmente lungo, ma necessario a deglutire con accettabile calma il cibo che ci trovavamo davanti. Raramente ci guardavamo negli occhi. Era più facile concentrarsi ad ascoltare con attenzione i rumori che le posate facevano contro i piatti, mentre il cibo masticato scendeva, anch'esso frastornante in quell'assenza di rumori, giù dove sarebbe stato digerito. Una frase, poche parole, avrebbe rotto il voto di silenzio che non avevamo mai fatto e quel rumore assordante non ci avrebbe più stordito. Ma né io, né lei, ancora turbati, intimiditi da ciò che era accaduto, dicevamo altro che le parole strettamente necessarie a non mostrarci maleducati. Quel giorno fu il telefono a far rumore. "Scusa, vado a rispondere" e mi alzai, cercando di far piano, timoroso di inquietarla. Poi ascoltai Marco, il suono della sua voce, serena, allegra. "Vieni a trovarmi" disse "ho bisogno di parlarti. Vieni stasera al reparto..." "Sei ancora negli scout?" gli chiesi, sorridendo, come se potesse vedermi. Mi piaceva ascoltarlo, mi allontanava dai miei pensieri. Sapevo che continuava a girare in pantaloncini corti, che non avrebbe mai abbandonato l'associazione, ma glielo chiesi lo stesso. "Non fare lo scemo, lo sai benissimo che sono ancora negli scout e sai anche che quest'anno sono il capo reparto: mi sembra di avertelo detto. Non fare il furbo con me!" "Mai provato!" stetti al gioco. Scherzava ed io tentavo di dare alla mia voce un tono sereno. Il mio volto, invece, era tornato impassibile, incapace di contrarre a lungo i muscoli che poco prima l'avevano fatto sorridere. "Senti. Ti chiamo perché stasera voglio..." esitò, si corresse "cioè... vorrei che tu venissi alla riunione di reparto! Alle sette, come sempre. Stasera! Te lo ricordi? Siamo sempre là. Ci verrai? Ti prego!" "E perché proprio io e proprio stasera? Perché dovrei, Marco?" "Perché ho bisogno di parlarti!" Ero diffidente. Forse mi avrebbe chiesto un favore, ma era certamente per qualcosa che non potevo fare. Tornare da quelle parti. Sperai che si spiegasse là, al telefono. Attesi, disperato, perché quello che mi stava chiedendo era troppo difficile per me. "Devo parlarti" insistette "Ho una cosa da proporti. Verrai?" Mi stava pregando. "Marco, mi chiami dopo tanto tempo" tentai di difendermi più allarmato che spazientito "Sono mesi che non ci si sente. Mi chiedi di vederci, al reparto, dove non metto piede da tre anni. Anzi, sono tre anni che non passo più da quelle strade! Forse ti ricordi anche perché non ci passo più. Tu lo sai, Marco, dovresti saperlo! E stasera vuoi che venga là solo perché devi parlarmi? Devi dirmi cosa? Dimmela ora!" Era stata l'inquietudine a rendermi sgarbato. Avevo l'affanno. L'emozione, l'idea di tornare in quei posti, mi toglieva il respiro. "Ho bisogno del tuo aiuto" disse finalmente "e se lo chiedo proprio a te, è perché sei l'unico che può farmi questo favore. Ci verrai?" La sua voce s'era fatta ancora più dolce, evocando in me altri tempi, un'altra felicità, la mia adolescenza che non era tanto lontana eppure era finita, sepolta sotto cumuli di vita e di brutte esperienze. "Forse!" dissi io e riattaccai innervosito, senza aggiungere altro o ascoltare il grazie tranquillo, educato, com'era lui, che certamente aveva mormorato anche alla cornetta muta. Quello era il suo modo di imporsi. Ed io non lo salutai, né gli dissi quanto mi fossero mancati tutti, quanto fossi felice ed emozionato e spaventato di tornare là. Perché non avevo rifiutato? Perché andare o non andare? Se per una sera avevo l'occasione di pensare a qualcos'altro che non fossero i libri e gli esami, o i silenzi, le malinconie con cui mia madre ed io popolavamo le nostre giornate, non mi avrebbe fatto male. Mancava poco tempo al momento in cui mi avrebbero chiesto di mostrare il frutto del mio lavoro e la mia attenzione era rivolta esclusivamente a quello che avrei scritto e detto in quelle occasioni datemi per farmi valutare e giudicare. Esami scritti ed orali: dovevo mostrare qualcosa di me che non fossero i miei effettivi pensieri, se volevo prendere il massimo dei voti. Ed ero obbligato a farlo. Poi, dopo quel momento, oltre il traguardo, c'era il nulla. In quei mesi nella mia vita non c'era stato altro che quei maledetti esami. Quando non fantasticavo sulle prove che mi attendevano, quella specie di fatali appuntamenti, era l'immagine di mia madre ad occupare la mia mente. Il suo lento scomparire nel dolore mi preoccupava. Oppure pensavo a mio padre, a com'era prima e poi alla fine, quando l'avevo guardato l'ultima volta da vivo, perché da morto non avevo più visto lui stesso, ma un sacchetto di pelle lisa e tirata sulle ossa, che erano l'unica parte del suo corpo che la malattia non aveva ridotto o asciugato. Quella sera sarei andato da Marco: forse non mi avrebbe fatto male distrarmi, a patto di non rimpiangere troppo quello che non avevo dimenticato. Era una delle cose che non potevo permettermi, assieme a molte altre ancora più serie, prima fra tutte incontrare ancora certa gente, un altro tipo di persone, i compagni di certi miei viaggi. Fino a quel momento nella mia vita, di viaggi ne avevo fatti tanti, ma solo due erano stati importanti, oltre che veri, concreti: l'estate di due anni prima ero andato ad Amsterdam, quella dopo a Londra. Molti altri viaggi, invece, non erano stati che fughe dalla realtà indotte, come avrebbe recitato professionalmente mio padre, dall'assunzione di sostanze stupefacenti di varia natura, atte ad alterare il mio equilibrio psicofisico, spingendomi a reazioni incontrollate. Era per questo che, da un anno e mezzo, mi era assolutamente proibito incontrare chi mi aveva passato lo spinello e poi l'acido, rivedere chi mi avevano tenuto il braccio, mentre un altro di cui cercavo di scordare il nome mi iniettava la prima ed ultima dose di eroina della mia vita. Quello era un divieto molto particolare, perché irrevocabile, assoluto, pronunciato da mio padre. Essendo lui morto, quel veto, invece di perdere valore, come sarebbe stato ragionevole che fosse, per me era diventato inappellabile e sarebbe stato anche sacro se avessi creduto in qualcosa che potesse renderlo tale. Però, proprio in quei giorni, guardando all'impegno con cui studiavo, alla mia foga, alla rabbia, comprendevo come quegli sforzi fossero il puerile tentativo di ingannare un destino già definito. Alla fine del colloquio, detta l'ultima parola ai miei esaminatori, quella mattina d'estate che speravo arrivasse il più tardi o il più presto possibile, non importava, quando avessi liberata la mente dal pensiero degli esami, i miei incubi, quelli veri, mi avrebbero raggiunto ed io non avrei più avuto modo di sfuggirli. La fuga, l'evasione concessa alla mia mente dallo studio, si sarebbe conclusa ed io sarei tornato prigioniero delle mie ossessioni. Della prima, dell'ultima, non sapevo quale. Con Marco avevo continuato a vedermi, anche dopo aver lasciato gli scout, tre anni prima. C'eravamo incontrati, anche se sarebbe più esatto dire che era stato lui a cercarmi, essendomi io limitato a farmi trovare. Talvolta ero io a desiderare di incontrarlo. Più spesso accettavo di vederlo, perché, quando ci incontravamo, Marco non mi faceva domande, né io dovevo parlargli di me. Era come se i nostri incontri si svolgessero in un luogo lontano, per raggiungere il quale io mi privavo della mia esperienza, per non doverla raccontare. Nei luoghi dei nostri appuntamenti, i rumori del mondo arrivavano filtrati dalla discrezione di cui quel ragazzo sapeva ammantare ogni sua azione. Credo che fossi io a volere che non dovessimo parlare di noi, perché se glielo avessi permesso mi avrebbe certamente parlato di sé, ma non mi importava di sapere di lui, o credevo non mi interessasse, o temevo potesse dirmi cose che non avrei voluto sapere. Quello che era importante, comunque, era non dovergli raccontare di me quelle cose che lui intuiva, sapeva, leggendomele in faccia. Ad ogni modo, eravamo ancora abbastanza in confidenza, perché potesse cercarmi e chiedermi di andare a trovarlo. Qualunque cosa gli passava per la testa, mi avrebbe fatto bene ascoltarlo. Il fatto insolito, che mi aveva intimorito e reso nervoso, quasi maleducato, era che dovessimo vederci nella sede degli scout. E lui sapeva che non mi sarebbe piaciuto. Non che di questo avessimo mai parlato, ma era una delle cose che due amici non devono dirsi, perché uno le sappia dell'altro. Nonostante tutto ci sarei andato. Probabilmente avrei rivisto qualche faccia amica. Qualcuno che non dovevo proprio rivedere, Sarebbe stato pericoloso per il mio equilibrio, ma decisi che per quella sera avrei rischiato. Era una follia, ma era indotta dalla vacuità della mia vita in quei mesi, negli ultimi anni. E poi, quando non si ha proprio nulla nel cuore, non si rischia di perderlo. Mi sbagliavo e quel che è peggio, mentre decidevo di andarci, sapevo esattamente quanto stessi sbagliando. Arrivai al reparto alle sette, perché a quell'ora ogni sera si incontrano i ragazzi. La sede degli scout era, adesso non lo è più, in una strada abbastanza larga e nascosta perché ci si potesse giocare a pallone senza doversi preoccupare delle macchine. Era uno stanzone largo e molto lungo, con le volte alte, grandi archi sulle pareti, ogni arco dipinto con i colori di una squadriglia. Sul muro erano appesi oggetti di ogni genere, veri e propri trofei per la fantasia di noi ragazzi. Quando anch'io ero un ragazzo. Mi fermai sulla porta, dentro c'era la solita animazione. Tremavo per l'emozione, chiusi gli occhi e aspirai l'odore inconfondibile di quella stanza, un misto di vernice, umidità, cuoio, di liquido impermeabilizzante per le tende, di grasso per gli scarponi e su tutto l'odore dei ragazzi, il profumo che io avevo posseduto e poi, inevitabilmente, perduto, assieme a tante altre cose. Marco mi venne incontro: "Ci sei venuto davvero. Non speravo di convincerti così facilmente. Meglio così, perché avrei continuato a perseguitarti con le mie telefonate!" Che dirgli? Che quella sera avrei fatto le prove del mio suicidio? "Hai progetti per quest'estate?" mi chiese subito, senza preamboli "Intendo per dopo gli esami. Prima che tu te ne vada dai tuoi nonni, insomma!" Lui era di poche parole, pronunciate con la stessa voce calda e piana, confortevole. Per me era sempre stata rassicurante. L'avevo quasi dimenticata e riascoltarla mi rese inspiegabilmente felice. Si era ricordato dei miei nonni a Vienna, pensava che potessi tornare da loro. Io e mia madre, come se nulla fosse successo. In quel momento mi balenò nella mente l'idea che la mia vita non dovesse finire per forza quella sera, oppure entro un mese, ma avesse una possibilità di continuare. Così accantonai i miei propositi e decisi di pensare al mio suicidio un'altra volta. "Non ci ho pensato ancora" dissi, mentre guardavo distrattamente i ragazzi muoversi esattamente come facevo io tre anni prima "E poi non conosco la data dell'esame orale. Chissà come andrà a finire." "Detto da te non ha senso" non considerò neppure quella specie di scusa "sono sicuro che prenderai il massimo dei voti. Senti" mi prese le mani, me le strinse, come per dare più forza alla sua proposta "volevo soltanto chiederti se ti piacerebbe venire con noi al campeggio. Mi serve aiuto: noi capi saremo certamente in due, invece che in tre, e cerchiamo qualcuno che si occupi della cambusa e di tutto quello che non riusciremo a fare io e Tonio, l'altro capo che lavora con me. Te lo ricordi Tonio?" "Si!" dissi subito. Tonio era uno dei tanti che avevo quasi dimenticato e senza rimpianto. Dovetti sforzarmi per ricordare che faccia avesse. Ci riuscii subito, perché lo intravidi in fondo allo stanzone. Era dunque questo che voleva. La sua richiesta mi stupiva perché la trovavo difficile da realizzare, ma non era del tutto imprevista. Nei nostri sporadici incontri lui non diceva mai una cosa che, invece, io gli leggevo negli occhi e nel cuore: voleva, sperava che tornassi indietro, dal mio viaggio senza ritorno. E mi voleva con sé negli scout: se era un sogno per lui, e lo era certamente, quel desiderio era tanto irraggiungibile quanto invitante. Aveva sempre sperato di convincermi a tornare alla normalità, alla sua idea di equilibrio e quindi negli scout, ed ora che ero in un certo senso più presentabile, dopo che anche il compito di accudire mio padre era terminato, poteva portare a conclusione la difficile incombenza che s'era attribuita. Ma non era solo quello, sarebbe stato ingiusto pensarlo. Lui mi voleva bene, io avevo sofferto e soffrivo ancora, lo sapeva e voleva aiutarmi, ma la medicina non era quella. E Marco non immaginava quale fosse, ora ne ero sicuro. Se l'avesse saputo, certamente non mi avrebbe chiamato. Per non badare a tutti i pensieri che mi rimbalzavano nel cervello, immaginai me stesso al campeggio: sarebbe stato un tremendo pasticcio, stancante e sporco. Sarebbe stato anche rischioso, perché avrei avuto un sacco di ragazzi attorno e quello era un altro degli argomenti cui non dovevo pensare. Non persi tempo a capire che quel campeggio non faceva per me. Stavo faticosamente mettendo insieme le parole per rifiutare la sua proposta, cercando, se possibile, di non offenderlo. Stavo per dirglielo, quando vidi apparire sulla porta un ragazzo che riconobbi subito, senza andare alla ricerca di immagini nell'archivio della memoria. Era per lui che ero là. Avesse ritardato solo un po', me ne sarei tornato alla mia tristezza, lasciandomene sopraffare. Sulla porta c'era Paoletto. Così, invece di ringraziare Marco per aver pensato a me, pregandolo di scusarmi se non potevo accettare la sua proposta, parlai in modo molto diverso dalle mie intenzioni, con un entusiasmo che mi era assolutamente sconosciuto. Il mio cervello smise di funzionare e parlò il mio cuore. "Vuoi davvero che venga al campeggio? Credi che possa tornare con voi un'altra volta?" mi sentii dire. E una parte del mio cervello inorridì, impotente. Marco mi guardò incuriosito: "È proprio quello che ti sto chiedendo!" "Ma su molte cose non la penso più come te, come voi. Sai quello che intendo" dissi riprendendo un po' il controllo delle mie parole, cercando di far andare la testa. "Questo non è un problema" concluse "Ti sto solo chiedendo un aiuto pratico: dovrai fare il cambusiere e, se non vorrai fare certe cose, se non verrai a messa, insomma, nessuno ci baderà. E poi credo che un campeggio ti farebbe bene!" Disse così e se ne andò, prima che potessi ripensarci, lasciandomi in mezzo allo stanzone, un po' stordito. Allora mi sentii afferrare da dietro, abbracciare, stringere. Era Paoletto. "E tu che ci fai qua? Sei venuto ad iscriverti un'altra volta?" Da troppo tempo non ci parlavamo, da quando lui era ancora un bambino ed io fingevo di essere un uomo. Ora era un ragazzo, alto quanto me ed io seppi di amarlo, di averlo sempre amato, di non avere smesso un momento. Me lo ripetei e mi proposi di scappare. Cercai quasi di farlo, ma lui era là, mi teneva stretto ed io l'amavo. Mi mancò il fiato per l'emozione, non potevo farci nulla, era proprio così. Era così che doveva andare. "Lui potrebbe essere il nuovo capo" gridò Marco da lontano, vedendoci insieme "e forse verrà al campeggio con noi. Non ha ancora deciso." "Davvero?" disse Paoletto con una voce dolce che avevo scordato e mi abbracciò un'altra volta. Poi mi mormorò in un orecchio: "Sono contento, stronzo, sono contento. Ci verrai? Non è vero?" Non attese la mia risposta e se ne andò verso l'angolo della squadriglia Pantere di cui era il capo. Prima di lasciarmi andare però, mi strinse forte e scosse la testa. Non avevo parlato, né respirato più. Mi accorsi che mi mancava l'aria. Avrei dovuto andarmene. Avrei voluto farlo. Se fossi sparito, probabilmente non mi avrebbero più cercato. Marco avrebbe pensato che il campeggio non faceva per me e Paoletto, per una volta ancora, si sarebbe chiesto che fine avessi fatto e poi mi avrebbe dimenticato, forse definitivamente. Invece restai e, mentre Marco cercava di spiegarmi meglio i miei compiti al campo, io non facevo che pensare a Paoletto, a com'era ora, dopo tre anni. Sebbene in passato mi fossi abituato a negare la realtà anche a me stesso, quella sera non ebbi difficoltà ad ammettere la verità: io e la mia coscienza sapevamo perfettamente che ero andato al reparto per rivedere Paoletto, sapendo di trovarlo là. E lui, quando si era accorto della mia presenza, era corso a salutarmi. Mi aveva abbracciato e la sua stretta era stata piena d'affetto. Né rancore, oppure il disprezzo che avrei meritato. Restai al reparto e partecipai alla riunione, ignorando subito e coraggiosamente tutti i motivi per cui avevo abbandonato gli scout. Scomparvero i miei problemi ideologici, che evidentemente non erano mai stati tali, se ne andò com'era venuta anche la mia incompatibilità con la religione, che era il miglior abito con cui tre anni prima avevo rivestito il mio rifiuto. Quella sera riuscii quasi a non pensare a ciò che c'era davvero dietro la mia fuga. Quando, alla fine della riunione, i ragazzi si riunirono per la preghiera, io non scoppiai a ridere, né a piangere, come avevo temuto, ma mi feci meccanicamente il segno della croce e quasi pregai, arrivando a ricordarmi di mio padre, com'era prima di tutto ciò che ci era accaduto. E poi mi tornarono in mente tutte, proprio tutte, le parole delle preghiere che per tre anni mi ero sforzato di dimenticare. Mentre eravamo in cerchio, prima a parlare, poi a pregare, Paoletto mi guardava e io lo guardavo: non facemmo che sorriderci e poi ridere apertamente. Alla fine della riunione scappai per non dover dare spiegazioni cui non ero preparato, ma sarei andato al campeggio, felice di andarci, anche se questo avrebbe significato per me fare cose molto contrarie alle mie idee, ammesso che ne avessi ancora. Quando me ne tornai a casa, invece di esserne profondamente preoccupato, ero come consolato da tutti quegli avvenimenti. Mia madre si avvide dalla mia contentezza e riuscì a chiedermene il motivo. Non accadeva spesso che lei parlasse, che uscisse dall'isolamento in cui si era chiusa. Provai a comunicarle una parte della serenità che mi pareva di aver trovato quella sera, ma, una volta tranquillizzata dalle mie spiegazioni, certa che non avessi riallacciato nessuna delle mie pericolose amicizie, si ritrasse, come faceva sempre. Si rifece piccola e tornò a nascondersi. La sera successiva andai ancora agli scout e fu per stare con Paoletto. Non erano passati quegli anni: era come se fosse stato ieri. Mi impegnai a fondo nella preparazione, felice che tante nuove preoccupazioni assorbissero i miei pensieri. Ero acquietato da quelle nuove incombenze. E potevo vedere Paoletto ogni sera, godermi il suo affetto e la sua sincerità. Io che l'avevo tradito. Dopo anni trascorsi a cercare di capire quali fossero i pericoli che ogni nuova amicizia poteva nascondere, tornare con lui e con tutti gli altri, fu per me una medicina miracolosa. Cominciai anche a studiare con meno accanimento. I miei esami andarono benissimo e presi il massimo dei voti, come tutti si aspettavano. Il giorno in cui furono noti i risultati partimmo per il campeggio, sulle Alpi, in un posto dal nome francese. Avevo lasciato gli scout nell'agosto di tre anni prima, dopo il mio quinto campeggio, quando avevo quindici anni e tre mesi. C'ero entrato a sette e fino ai dieci anni ero stato lupetto. Al mio arrivo nel reparto degli esploratori, avevo ritrovato Marco, di due anni più grande, e mi ero subito affezionato a lui, perché eravamo nella stessa squadriglia, abitavamo nella stessa zona e le nostre famiglie si conoscevano. Anni prima era stata sua madre a convincere la mia ad iscrivermi agli scout. Marco era un ragazzo tranquillo. Da piccoli avevamo giocato spesso insieme. Io, figlio unico, ero sempre alla ricerca di un compagno di giochi e lui, anche se più grande, era sempre stato disponibile e contento di dividere il suo tempo e i suoi giocattoli con me. Quando ero molto più piccolo, avevo avuto un grande pupazzo, un orso. Era fatto di un materiale soffice, morbido e i suoi occhi, l'espressione del viso, chiedevano solo che lo si abbracciasse. Ed era quello che io facevo in ogni momento. Fummo inseparabili per un po' di tempo e rappresentò, lo capisco ora, il cagnolino che i miei genitori non avevano mai voluto regalarmi, oppure un gattino da accarezzare, senza paura di sporcarmi o di prendere qualche malattia. Quella specie d'infatuazione durò solo qualche mese, finché mia madre non decretò che Pilù fosse troppo sporco, perché lo portassi a letto con me. Un giorno lo fece sparire, cercando di sostituirlo con altri pupazzi che, ovviamente, non fecero che acuire la mia nostalgia per lui. Dopo un po' lo dimenticai, ma credo di essermene ricordato conoscendo Marco. Per me lui era come Pilù, liscio e morbido. Non che a sei, sette anni potessi capire queste cose, ma i suoi capelli, il modo di vestire, la sua voce, il comportamento erano assolutamente privi d'asperità e tutto mi trasmetteva serenità e quindi per me morbidezza. Quando ci ritrovammo nel reparto, fu subito affettuosissimo, confermandomi tra gli scout, in un ambiente di ragazzi più grandi, l'amicizia che già c'era fra noi. Ed io lo ripagai con il mio affetto, orgoglioso che uno più grande, lui aveva già tredici anni, s'interessasse a quello scricciolo molesto che ero io. Ogni sera, alle sette meno un quarto, passava davanti al cancello di casa, io ero già fuori ad aspettarlo, ed insieme correvamo, camminavamo, chiacchierando e scherzando, fino alla sede degli scout. Lo facemmo per tre anni. Nel frattempo la nostra amicizia si approfondì ed io, crescendo, diventai meno esasperante. Fu naturale che Marco divenisse il mio confidente. Avevo altri amici che erano miei coetanei, in genere compagni di scuola e di giochi, oppure quelli che negli scout avevano la mia stessa età, ma Marco era la persona cui ricorrevo quando volevo che qualcuno mi spiegasse qualcosa. Non avendo fratelli o sorelle, era abbastanza naturale che lo rendessi partecipe di ogni mio dubbio. Entrando negli scout, imparai anche a vivere in un mondo che non era più la realtà ovattata della mia famiglia ed era un mondo diverso anche dalla scuola, che non mi aveva mai coinvolto abbastanza perché la considerassi importante. Il reparto divenne invece il mio cosmo, la giungla, la mia scuola di vita. E Marco ne fu il maestro, la guida nella foresta che dovevo esplorare e conoscere per sopravvivere, o meglio per crescere. Ogni sera in quello stanzone si svolgeva un gioco molto importante che era imparare la vita. Spesso quel gioco continuava di domenica nelle escursioni fuori città, in qualche bosco, oppure con impegni e attività diverse. E poi c'era poi il campeggio estivo, che era come un esame finale. Allora nessuno di noi immaginava di interpretare un ruolo tanto vicino alla vita reale, ma, dopo che avevo studiato per la prima volta educazione civica, fantasticai che fossimo come un piccolo stato, il reparto, diviso in regioni o province, che erano le squadriglie. Quello stato aveva un governo, i capi, gli adulti, i più saggi. Anche ciascuna provincia era retta dal più vecchio del gruppo e, in sua assenza, da quello che gli era più vicino per età. forse erano come feudi, pensai dopo aver letto la storia medievale, piccoli stati che erano sempre in guerra tra loro, che fosse una partita di calcio o per stabilire chi avesse dipinto meglio il proprio angolo. E noi facevamo quel gioco, tanto felici di farne parte, quanto ignari di esserlo. Dopo due anni e due campeggi, Marco divenne il mio caposquadriglia e questo accrebbe, se possibile, la mia devozione verso di lui. Una sera di ottobre, qualche mese prima del mio tredicesimo compleanno, mentre tornavamo a casa, trovai il coraggio di chiedergli qualcosa. Era un'idea che mi rimbalzava in testa da troppo tempo e che aveva sconvolto il tranquillo scorrere dei miei giorni. La scuola era ripresa da poco, come sempre assieme alle attività del reparto. Eravamo più che impegnati, eppure c'era qualcosa che m'impediva di guardare con serenità al mio futuro. Vi erano stati alcuni piccoli episodi che ero riuscito a circoscrivere e talvolta anche a spiegarmi. Poi due miei compagni m'avevano raccontato una storia che mi aveva molto turbato. S'erano ritrovati da soli in casa di uno di loro ed avevano cominciato a fare delle cose che non avrei voluto neppure ascoltare. Una volta compreso di cosa si trattasse, avrei voluto di fuggire, ma l'argomento era troppo interessante ed ero rimasto incollato alla sedia a sentire le loro spacconate. In quell'estate il mio corpo era cambiato. Sulla faccia mi era spuntata qualcosa di più della solita peluria, ma soprattutto mi era comparso un pelino sulle palle. E poi il mio pisello non era più un pisello, ma una cosa che non riuscivo più a capire, né, tanto meno, a comandare. Tutto ciò, oltre ad imbarazzarmi, mi incuriosiva. Quei due parlavano proprio di questo. Tralasciando tutti gli altri cambiamenti, si concentravano su quello che loro chiamavano, bisbigliando, 'uccello' o 'cazzo', parole che mi facevano arrossire ed io mi rifiutavo di ascoltarle. Perciò, sentire questi discorsi, andava oltre la mia sopportazione. O così mi piaceva credere, ma non era vero, perché non mi mossi e rimasi incantato a sentire le loro vanterie. Del mio sviluppo sapevo qualcosa ma, non avevo alcuna conoscenza pratica della questione. Essendo mio padre medico, la biblioteca di casa era molto fornita anche su un argomento del genere e di nascosto dai miei genitori, avevo svolto le mie ricerche. Avevo compreso e riconosciuto quello che mi stava accadendo, ma l'idea che si potesse trarre piacere da quei cambiamenti non mi aveva ancora sfiorato. E, se avevo trovato scritto qualcosa di simile, doveva essermi sfuggita. Quei due, invece, anche se privi delle mie cognizioni, erano dotati di un'impudenza che non mi apparteneva, né sarebbe mai stata mia. Avevano fatto un'esperienza in cui gli era stata rivelata l'esistenza del piacere e me ne stavano mettendo a parte. Ma ovviamente lo facevano per vantarsi e quindi stavano inventandosi buona parte della storia, io lo sapevo, ma era tutto così avvincente per me che rimasi a sentire quello che raccontavano, convincendo me stesso che fosse vero. Rimasi avvinto dalle loro parole, mentre, ridendo grossolanamente, descrivevano ciò che avevano fatto il pomeriggio precedente in casa di uno di loro. Prima si erano eccitati a raccontarsi storie di ragazze inesistenti e di conquiste che mai avevano fatto, poi, tirati fuori gli uccelli già duri, se li erano mostrati e gli era venuta l'idea di una gara: volevano misurarli per stabilire chi ce l'avesse più lungo. Quando con il righello alla mano avevano stabilito chi dei due era il più dotato, il vincitore aveva preteso il pagamento di un pegno che consisteva nel poter toccare liberamente l'altro. Le palpate avevano causato una tale eccitazione che insieme avevano 'sborrato', e qui la mia comprensione aveva vacillato, anche se poi mi avevano spiegato che l'effetto pratico era stato il bagnarsi e lo sporcarsi di sperma. Tutto ciò mi aveva turbato, anche se sapevo che la storia era stata quasi tutta inventata a mio beneficio, per vantarsi della propria ormai raggiunta maturità fisica. In ogni caso quell'episodio mi aveva reso terribilmente curioso di saperne di più. Perciò, dopo qualche giorno passato a chiedermi se potessi farlo anch'io, se non fosse un peccato gravissimo verso quel Dio che allora credevo intento a spiare chiunque per poterlo giudicare a tempo debito, oppure se non fosse pericoloso per la salute, come si sussurrava fra noi ragazzini. Dopo nottate trascorse nell'incubo di tutti i dubbi possibili, non ultima l'idea terrorizzante di dover per forza raccontare le mie azioni peccaminose al mio confessore. Davanti a quel problema, chiesi consiglio al mio caposquadriglia che era anche il mio consigliere ed era, ma non l'avevo ancora capito, il padrone del mio cuore: "Marco, posso chiederti una cosa?" non attesi il suo assenso e continuai spedito, pronunciando le parole che mi ero preparato con tanta meticolosità "Due miei compagni di scuola mi hanno raccontato che si possono fare certe cose..." e a questo punto il mio coraggio vacillò, ma mi feci forza, perché ormai dovevo sapere e Marco era l'unico di cui mi fidassi "Parlo della masturbazione. Tu che ne pensi? Credi che sia una cosa cattiva? È un peccato?" Non rispose subito, se ne stette zitto e continuò a camminare, tanto che temetti di averlo offeso con le mie parole. Ero disorientato dal suo silenzio e stavo per scusarmi di averlo infastidito, quando finalmente parlò. Non con la sua solita voce, ma con una specie di rantolo: "Tu che cosa ne sai esattamente?" Sebbene fossi terribilmente imbarazzato, trovai il coraggio di parlare e gli snocciolai le mie conoscenze scientifiche sull'argomento, chiamando ogni cosa con il suo nome, anche se parecchio non mi era chiaro dal punto di vista pratico, non avendo ancora provato nulla su di me, per timore di chissà quali conseguenze. Ascoltandomi, credo che fosse arrossito, non ne sono certo, ma forse la franchezza delle mie parole l'aveva imbarazzato. "Non è una cosa cattiva e non è un peccato" disse con decisione "ma non si deve esagerare." "In che cosa?" "A farlo. Non si deve fare troppo spesso" prima che potessi chiedergli ancora che cosa mai si dovesse fare con tanta parsimonia, Marco mi soccorse "ma tu non l'hai mai fatto, vero?" Scossi la testa, dispiaciuto di dargli un pena. "Allora tu non sai come si fa a... masturbarsi!" "No! Si! Me l'hanno detto a scuola i compagni... un po' lo so!" "Vuoi che te lo spieghi io?" Vorrei che me lo facessi vedere, pensai senza dirlo, perché sarebbe stato inconcepibile, anche se era la cosa che desideravo di più al mondo in quel momento. "Si... se tu vuoi" mormorai, al colmo dell'imbarazzo e dell'eccitazione. Anche dell'attesa, più che di sentire spiegazioni, di vederglielo fare. "Cerca di trovarti un posto tranquillo" cominciò lui, deludendo le mie attese "e di stare da solo, perché è meglio così. Poi mettiti comodo." Nonostante tutto, l'ascoltai rapito. Quella era una lezione di vita. Non quella che avrei voluto, ma sempre un prezioso insegnamento e non so quanti l'abbiano ricevuta da uno come Marco che rivestiva ogni suo atto di equilibrio e prudenza. Avrei preferito certamente la pratica diretta, ma forse sarebbe stato pretendere troppo. Lui parlava con voce strozzata dall'eccitazione. Ora lo so, ma in quel momento credetti che fosse soltanto imbarazzato. "Prenditi il coso in mano e se non è duro, vedrai che lo diventerà subito. A te diventa duro, no?" Ebbi un tuffo al cuore: pensavo fosse un segreto. Non una deformità, come credeva qualche mio compagno di scuola, ma ero convinto che quell'aspetto del mio corpo fosse celato oltre un limite che ritenevo invalicabile a chiunque non fossi io. Credo anche che quell'idea singolare fosse il culmine della mia ingenuità e ne rappresentasse la prova migliore. Arrossii e mi mossi a disagio: credo anche di essermi fermato, mentre lui continuava a camminare. "Non c'è niente di male" mi incoraggiò "è normale che accada se vedi qualcosa che ti piace. Sai di che parlo?" "Si! Credo..." avevo la gola secca e la lingua attaccata al palato. Di che parlava? Di qualcosa che mi piaceva? Ma cosa? Lui mi piaceva. E anche i miei compagni. Ma più di tutti mi piaceva lui. "A quel punto muovi la mano come vuoi e come ti piace di più. Vedrai che saprai subito farlo da solo! E poi ti accadrà una cosa bellissima. Ti sentirai strano. Quella sensazione si chiama orgasmo! Tu non spaventarti però! Vedrai: è bello!" "Ho capito... forse!" Non avevamo neppure il coraggio di guardarci, quando mi lasciò, come al solito sotto casa. Ma quella sera disse ancora qualcosa, mi concesse il viatico affinché crescessi, senza che quel particolare aspetto del mio sviluppo fosse qualcosa di cui vergognarmi. Almeno non subito, perché non me ne vergognai finché non accadde tutto il resto. "Lo faccio anch'io!" mi rassicurò "E... un'altra cosa che forse ti preme sapere: io l'ho detto in confessione una sola volta, ma quello è diventato tutto rosso" scoppiammo a ridere insieme "allora ho pensato che fosse una cosa proprio mia e che non dovevo più parlarne con i preti, anche se dicono che è un peccato. Non credo che lo sia, perché se Dio ci ha dato le mani e il coso, allora... insomma..." e qua si fermò anche lui, forse mi stava dicendo troppo e chiuse là il discorso "E così ho fatto, però, se tu hai voglia di parlarne con me, fallo quando vuoi. Con te non mi vergogno! E neanche tu devi vergognarti!" Questo mi disse e il sapere che uno più grande di me, aveva i miei stessi problemi ed era disposto ad aiutarmi, mi consolò moltissimo. Appena a casa, cercai di essere solo prima possibile e con precipitazione misi in pratica tutti i suggerimenti di Marco: il risultato mi strabiliò, spingendomi a riprovare immediatamente per ottenere le stesse sensazioni. L'idea di provarci una terza volta mi sfiorò soltanto, perché mi sovvennero subito le raccomandazioni del mio amico, circa la moderazione. Quel giorno Marco mi aveva dato ancora qualcosa: oltre a quell'amicizia così forte, nel nostro rapporto si era creata una nuova complicità, quasi fisica. Cominciai a provare una strana sensazione, standogli vicino. Lo sfioravo, lo toccavo, non perdevo occasione per farlo. E anche lui era attratto da me, ma in modo diverso e certamente più consapevole. Di questa nuova dimensione della nostra amicizia, però, non trovammo mai il coraggio di parlare. La vivemmo e a modo nostro fummo felici. Accadeva che io lo cercassi con gli occhi, per scoprire che lui mi stava già fissando. E mi accarezzava spesso, mi sfiorava con le sue mani morbide. Era un tocco tanto diverso da quello di mia madre, che era l'unico che conoscevo, ma quando accadeva sentivo che dentro c'era un affetto molto simile. Una sola volta quelle carezze mascherate, anche a noi stessi, si rivelarono per ciò che erano, ma poi tutto finì. Marco non fece mai alcun cenno all'accaduto ed io collocai quei momenti, che non avevo compreso, nel limbo delle cose vissute o viste in sogno, che sono state realtà e che qualche volta si crede di aver sognato. Quando capii era troppo tardi per me, per Marco, per tutti. Accadde l'estate successiva, al campeggio, di notte, in una notte orribile, di pioggia, lampi e tuoni. Eravamo nei sacchi a pelo da un paio d'ore, quando sul campo si abbatté un temporale fortissimo. La tempesta raggiunse una forza che non avevamo mai visto in quei giorni che pure erano stati piovosi: vento e acqua spazzavano la radura, dove avevamo alzato il palo per la bandiera. Fu proprio il suo cigolio a svegliarmi. Quando si è abituati a dormire in tenda e si è vissuta una intensa giornata di campeggio, non ci si sveglia certamente per il rumore della pioggia che picchia sul telo, né per un tuono che rimbomba o per il bagliore di qualche lampo. Ero là, profondamente addormentato come tutti, quando quella specie di scricchiolio insistente mi strappò al sonno profondo della stanchezza. Mentre lentamente mi svegliavo, distinsi tutti gli altri rumori. La pioggia battente, il fruscio del vento fra i rami e le foglie delle betulle che cingevano il prato, il tuono che echeggiava nella valle ed infine isolai il rumore che, pur nel sonno, aveva attirato la mia attenzione: il cigolio del palo dell'alzabandiera. Non era normale, ragionai, che facesse tanto rumore. Doveva tirare davvero molto vento, perché si inclinasse tanto da dover gemere a quel modo. L'insistenza del rumore e l'idea che fosse strano ed insolito, mi svegliarono del tutto. Decisi di affacciarmi a guardare fuori dalla tenda. Vinsi, con qualche fatica, il pensiero del freddo che avrei sofferto ad uscire dal mio sacco a pelo e tirai fuori un braccio. Appoggiai per terra la mano e la sentii bagnata. La tenda era completamente allagata e l'acqua raggiungeva quasi il livello delle brande su cui dormivamo. "Marco, c'è acqua nella tenda. Marco, ci siamo allagati!" Si svegliarono tutti, uno accese anche una torcia elettrica e potemmo costatare che, davvero, per terra c'era quasi un palmo d'acqua. "Non possiamo stare qua: dobbiamo andarcene. Mettetevi le scarpe e le giacche a vento, prendete i sacchi a pelo e cerchiamo di raggiungere il pagliaio." Questo fu l'ordine del nostro capo, mentre qualcuno già piangeva spaventato ed io tremavo per il freddo e la paura, visto che il temporale non si era per nulla calmato e i tuoni rimbombavano vicinissimi. Le mie cognizioni di scienze naturali mi suggerivano, nel momento sbagliato, che quanto più forte era il tuono, tanto più vicino era caduto il fulmine. Era questo a terrorizzarmi. Marco mi scosse, richiamandomi ai miei doveri, fra i quali c'era quello di badare a quelli più piccoli di me, i quali naturalmente erano molto più spaventati e non trovavano gli scarponi o la giacca a vento. Riuscimmo ad attrezzarci abbastanza in fretta. Marco era già fuori ed anche i nostri capi si erano svegliati sentendo le grida. La nostra tenda era l'unica ad essersi allagata perché, lo notammo solo allora, l'avevamo piantata al centro di una specie di canale di scolo delle acque che defluivano dal pendio. Pioveva forte ed il cielo era solcato da lampi, tanto frequenti da rendere inutile la luce delle torce. Anche i tuoni erano così ripetuti che, assommati al rumore dell'acqua, rendevano quasi impossibile che ci si sentisse. Urlavamo tutti insieme, chi per dirci cosa fare, chi per spiegare il motivo per cui tardava a farlo. Ci incamminammo verso il casolare che si trovava al centro di una radura poco lontana dal campo: c'era da attraversare un gruppo di alberi alti e frondosi, tanto fitti da essere impenetrabili alla pioggia ed al bagliore dei lampi. Dopo pochi passi mi ritrovai al buio. Sentivo muoversi accanto a me i due piccoli, ma non avvertivo più la presenza di Marco e degli altri. In squadriglia eravamo in sei. Oltre a Marco e me, c'era Tonio, il vice, un altro ragazzo della mia età e poi i due più piccoli, uno dei quali era al suo primo campeggio. Se, come pareva, eravamo rimasti soli, essendo io il più grande, avevo la responsabilità degli altri due: insomma, non potevo piangere come avrei voluto. Avevo tredici anni, ero in un bosco al buio, di notte, c'era il temporale, ero assordato dal rumore dei tuoni. Il terrore avrebbe potuto impadronirsi di me, se non mi fossi ricordato di essere uno scout. Me l'avevano ripetuto tante volte che in quel momento mi parve naturale riacquistare la calma ed avvicinarmi ai due più piccoli che tremavano di paura. "Ragazzi, il cascinale è in quella direzione" mi sentii dire con una voce che non poteva essere mia, per quanto era calma "cerchiamo di andarci in fretta! Marco e gli altri stanno arrivando!" E sperai di non sbagliarmi, sia sulla direzione che stavamo prendendo, sia sul fatto che presto avrei potuto liberarmi della mia responsabilità e sfogare liberamente la mia paura, che stava assumendo proporzioni mai vissute prima. Avevamo con noi i sacchi a pelo che cercavamo di proteggere per non farli bagnare: quando arrivammo al limite del boschetto e stavamo per lasciare la protezione degli alberi, tirai un sospiro di sollievo: il nostro rifugio era a non più di cento metri da noi, nel bel mezzo del prato. Ed era appena stato illuminato dalla luce improvvisa di un lampo. "Facciamo una corsa, cercando di bagnarci il meno possibile" proposi, sperando che nessuno cadesse o prendesse una storta. Ci buttammo a correre, come se fossimo inseguiti da un branco di lupi: e questi dovevano essere i nostri pensieri, perché ci fermammo solo dopo essere saliti al primo piano del cascinale. Nessuno ardì guardare fuori, per vedere se gli altri ci avevano seguito, ma ci sedemmo contro il muro di fondo, infagottati come eravamo nelle nostre giacche a vento, stringendo ancora i sacchi a pelo, come fossero dei salvagente. Subito arrivò Marco, assieme agli altri. "Passate qua la notte" disse il caporeparto che era venuto ad accertarsi delle nostre condizioni "la vostra tenda è piena d'acqua. Domani la sposteremo." Così cominciammo a guardarci attorno per decidere come sistemarci: dovevamo dormire per terra, perché, non avevamo portato con noi le brande. Al momento di stendere il sacco a pelo, ebbi la sgradita sorpresa di trovarlo inzuppato d'acqua: doveva essere accaduto quando mi ero alzato e non sapevo ancora che la nostra tenda era allagata. Era inutilizzabile anche come coperta. Fu allora che Marco mi offerse di dormire assieme a lui nel suo sacco a pelo. Accettai subito e dopo qualche risolino e battuta da parte degli altri su quella specie di matrimonio, ci infilammo insieme, cercando di coordinare i nostri movimenti, per non soffocarci, visto che Marco era già abbastanza sviluppato per avere quindici anni ed io non ero piccolo per la mia età. L'eccitazione dell'avventura si placò non appena Marco spense la sua torcia elettrica e quasi tutti piombarono nel sonno della stanchezza e del sollievo per la paura che avevamo avuto. Marco ed io, invece, non ci addormentammo subito. Avevamo vissuto la nostra amicizia un po' esclusiva in modo sempre aperto all'interno del reparto. C'erano stati scherzi riguardo al fatto che arrivavamo sempre insieme e che ogni sera ce ne tornavamo a casa, parlando e scherzando fra noi. Eravamo fidanzati, dicevano gli altri qualche volta, ma nessuno era mai andato oltre qualche battuta, né ce ne sarebbe stato motivo. Nessuno avrebbe potuto fare altri pensieri, non in quegli anni, non fra noi alla nostra età. E quella fu la prima ed unica volta che accadde qualcosa di straordinario. Accade, ma nessuno degli altri poté mai rendersene conto. Forse sarei stato più comodo se avessi dormito con uno dei più piccoli, Marco, invece, mi aveva voluto con sé: lo pensai mentre mi sforzavo di addormentarmi e questo mi allontanò definitivamente dal sonno. "Passami un braccio sotto, come se stessi per abbracciarmi" mi sussurrò in un orecchio. Invece di obbedire, perché quella sarebbe stata una buona posizione per convivere all'interno di quel sacco che era maledettamente stretto, gli chiesi: "Vuoi che ti abbracci?" "Si!" E mi strinse, lo fece in un modo che mi parve strano. Non per cercare di sistemarsi, ma per aderire a me. Questo non mi spaventò, provai un senso di felicità a trovarmi in quella situazione. Sentii che il mio cuore aveva accelerato i battiti e percepii l'emozione di Marco. Le nostre guance si sfiorarono, poi lui spostò indietro la testa come per guardarmi. Non potevamo parlarci, né vederci. Ci era consentito l'unico, semplice linguaggio dei nostri corpi. Forse, se avessimo potuto spiegarci a parole, oppure vedere il volto dell'altro, nulla sarebbe accaduto, invece, il buio era totale e l'unico rumore che ascoltavamo era quello del nostro respiro. Faceva freddo e stare così stretti forse era gradevole. Gli appoggiai la testa nell'incavo del collo e lo sfiorai con le labbra. Non era un bacio, non avrei saputo darlo. Cercavo solo un'intimità maggiore. Anche Marco si mosse. Mi accarezzò la spalla, scese con le mani tremanti lungo il mio corpo. Avevamo indosso le tute da ginnastica che usavamo al campo come pigiami. La mia curiosità fu più forte della timidezza, del pudore. Quando ci eravamo stretti la prima volta avevo percepito contro il mio ventre un turgore che mi era parso troppo grande per essere quello che sapevo. L'andai a cercare. Marco si scostò un poco per sottrarsi o per lasciare spazio alle mie mani, non saprei dirlo. Eravamo tutti e due eccitati. L'accarezzai. Incoraggiato dai miei movimenti, anche lui mi toccò. Poi mi liberò dei pantaloni, degli slip e mi attirò a sé. Si spogliò anche lui e tornammo a stringerci. La sua pelle nuda sulla mia, il calore che sentii contro di me furono fatali. Non riuscii più a controllarmi e godetti. Mi sfuggì un gemito e Marco mi baciò sulle labbra per farmi tacere. Mentre continuava a stringermi, a baciarmi, lo sentii muoversi contro di me, bagnarmi e poi placarsi. Ci stavamo baciando e fu un bacio vero, il primo della mia vita. Nella stanza, giunse il bagliore dei lampi: un altro temporale si avvicinava. Qualche anno dopo, ho studiato un poeta che descriveva una notte di tempesta e di amore: a noi accadde qualcosa di simile e fu tutto ammantato di un'assoluta innocenza. In me che lo abbracciavo e in Marco che mi sfiorava c'erano affetto, amicizia ed un'infinita dolcezza che poi ci portò al sonno. Fummo i primi a svegliarci, perché nonostante ci fossimo amati, in quel sacco a pelo, in due si stava stretti. Marco mi scosse delicatamente: "È già mattina dobbiamo alzarci" mormorò. Ci rivestimmo, senza dirci più nulla. Se non avessi trovato su di me e notato su Marco i segni inconfondibili della nostra eccitazione, avrei pensato ad un sogno. Ma non era stato così. Marco non parlò più di quella notte, tornò ad essere il ragazzo affettuoso di sempre. Nei giorni seguenti, posai su di lui qualche sguardo un po' più languido, uno sguardo che servisse a ricordargli quei momenti, forse per viverli un'altra volta, ma mi accorsi che i suoi occhi sfuggivano a quelle espressioni. Era sicuramente pentito di ciò che aveva fatto. Non mi accarezzò mai più, né accadde più anche solo che mi sfiorasse. Ma quello che era accaduto non era stato un sogno. Quando, qualche tempo dopo, ripensando anche a quella notte, decisi di fare ciò che feci e di diventare ciò che diventai, accadde perché non avrei avuto la forza o l'ipocrisia di Marco nello sfuggire la realtà e convincermi di averla sognata. lennybruce55@gmail.com