Date: Mon, 8 Nov 2010 22:14:41 +0100 From: Lenny Bruce Subject: Altri Viaggi - Chapter 3 DISCLAIMER: The following story is a fictional account of young teenage boys who are in love. There are references and graphic descriptions of gay sex involving minors, and anyone who is uncomfortable with this should obviously not be reading it. All characters are fictional and any resemblance to real people is purely coincidental. Although the story takes place in actual locations and establishments, the author takes full responsibility for all events described and these are not in any way meant to reflect the activities of real individuals or institutions. The author retains full copyright of this story. Questo è il terzo degli otto capitoli che compongono questo romanzo. Altri Viaggi 3. MIO PADRE Mio padre scoprì di essere ammalato di cancro, una mattina, mentre si radeva. Palpandosi la gola, sentì una tumefazione sotto le dita e non dovette attendere che i suoi colleghi glielo confermassero per capire di cosa si trattava. Prima ancora di sentire un suo amico raccontargli che dovevano fare delle analisi per essere certi che si trattasse di un tumore, lui s'era convinto del proprio male. Naturalmente aveva ragione. Accadde tutto in un giorno di primavera. Tornando da scuola scoprii che mia madre non era a casa. Ero convinto di trovarla, ma la casa era insolitamente silenziosa e soprattutto vuota. Loro erano all'ospedale ed io non lo sapevo. Come avrei potuto? La mattina, quando mi ero svegliato, erano già usciti ed io ero rientrato all'alba. Per me quella era stata una nottata particolare e alzarmi non era stato facile. Saltavo quasi sempre la prima ora di lezione, ma a scuola dovevo andarci. Le condizioni poste da mio padre per continuare a tenermi in casa erano due: che non perdessi neppure un giorno di scuola e che a giugno fossi promosso, non importava con quali voti. Non potendo certamente realizzare il secondo impegno, perché viaggiavo con sicurezza verso la bocciatura, cercavo di fare meno assenze possibile, perché mi lasciasse restare a casa per qualche altro mese. Per dopo non speravo nulla, perché sapevo che molto presto mi sarebbe accaduto di peggio che non avere più un posto sicuro dove dormire. Il mio era stato un lungo, snervante rotolare verso il fondo. Facevo quella vita randagia da troppo tempo e capivo di essere ormai vicino al limite della resistenza. Anzi, stavo impegnandomi concretamente per fare l'ultimo salto e proprio quella notte mi ero bucato. Era stata la prima volta, con l'aiuto degli altri, perché non sapevo ancora farlo da solo. Fino all'ultimo avevo avuto paura, era il primo buco ed era stato orribile. Quando l'effetto della droga era cessato, avevo provato un senso di privazione che mi era parso insopportabile, un vuoto che doveva schiacciarmi. E poi lo strazio di dover tornare ad essere ciò che ero, dopo aver vissuto tutti i livelli, dall'euforia alla disperazione, per approdare all'infelicità che era il mio abituale stato mentale. Quella notte avevo sperato di riuscirci, ma ero solo andato vicino. Avevo incautamente creduto di raggiungere il mio scopo, ma non ci ero riuscito e questo mi aveva gettato nello sconforto. Me n'ero tornato a casa quando già albeggiava, per gettarmi sul letto. Con gli occhi chiusi, la faccia schiacciata sul cuscino, sperando di non avere più la forza d'alzarmi. Quando la luce del mattino mi aveva svegliato, riportandomi alla realtà, ero stato contento di avere almeno evitato gli sguardi di commiserazione di mio padre e il dolore che mia madre portava ormai scolpito nel volto. Mio padre lo cercavo solo quando avevo voglia di litigare, ma evitavo le discussioni con mia madre, perché con la pena dei suoi sguardi mi rammentava ciò che ero diventato. Lei cercava di mediare anche le occhiate, sempre più torve, che io e mio padre ci scambiavamo, ma noi eravamo scaltri e, quando volevamo beccarci, come due galli, eravamo abilissimi a trovarci. Il mio modo trasandato di vestire era una sfida continua al suo concetto dell'ordine, i miei capelli sporchi e incolti, la faccia coperta di peluria, un'offesa ai suoi principi di igiene, il mio comportamento senza regole, il modo ricercatamente sboccato con cui avevo cura di esprimermi, le parolacce che dicevo continuamente, lo urtavano. Ciò che lui immaginava facessi della mia vita, lo umiliava. Ma la sua immaginazione era ben lontana dalla realtà amara e avvilente della mia esistenza, ne ero certo, perché, se l'avesse saputo, credo che mi avrebbe ucciso, oppure forse aiutato. Se non agì mai, fu perché, anche dopo il mio allontanamento dalla decenza, continuò ad ignorare molti particolari della mia discesa all'inferno che io gli tenni diligentemente nascosti. Lui poté quindi considerarmi soltanto un'indecorosa imperfezione, del suo disegno di vita. Se avesse saputo leggermi dentro, se fossimo stati più vicini, mi avrebbe salvato da tutta la vergogna che provavo per me stesso. Non lo fece, non ci riuscì, perché cercai sempre di impedirglielo. Sapeva che prendevo droghe, ma s'era convinto che fumassi soltanto erba e prendessi pillole di acido. Quando gli riferirono le abitudini del gruppo che frequentavo, decise che in famiglia si ignorasse la mia anomalia ed impose a mia madre di non darmi più denaro. Non lo seppe mai, ma agendo in quel modo mi costrinse a prostituirmi. Quel giorno avevo un ottimo motivo per litigare con mio padre: ci era venuta una bella idea su come trascorrere le vacanze di Pasqua e lui non voleva più darmi soldi. Ero ansioso di incontrarlo per litigare un po', anche se sapevo che quella discussione sarebbe stata un esercizio retorico fra due professionisti della zuffa, perché mia madre alla fine della contesa, dopo aver apparentemente dato ragione a suo marito, forse sarebbe riuscita a passarmi di nascosto almeno una parte del denaro che mi serviva. Il progetto era di trascorrere quei giorni tappati in una casa con altri disgraziati come me a drogarci, fingendo di essercene andati ad Amsterdam o chissà dove. La droga, tanta, l'avremmo presa spendendo i soldi con cui non avrei comprato il mio biglietto di viaggio, se avessi trovato i soldi. In un modo o nell'altro. Ero uno dei pochi del gruppo a mantenere rapporti stabili con i genitori e certamente l'unico a poterli ancora spremere un po'. Quella specie di vacanze doveva essere, nella mia fantasia, nelle mie speranze, il mio ultimo viaggio. E la meta, la fine, sarebbe stata la mia pace. Per questo ero deciso a cercare d'avere quel denaro in tutti i modi. Invece mamma e papà non erano a casa ed io provai un acuto senso di privazione per la litigata che, al momento, era soltanto rinviata. Poi mi resi conto di aver fame, non mangiavo dal giorno prima ed avevo saltato la cena, perché era l'ultima cosa cui pensavo la sera prima. Ora avevo una fame tremenda. In frigorifero però non c'era nulla che valesse la pena di essere mangiato, né pareva che mia madre, prima di scomparire, avesse pensato a farmi trovare qualcosa da mangiare. Fu allora che cominciai a preoccuparmi. Che ricordassi, non era mai accaduto che, al mio ritorno da scuola, non ci fosse qualcuno ad accogliermi, a prepararmi il pranzo. Qualche volta c'era una donna di servizio, ma più spesso c'era lei, cercava di esserci, a ricevere le mie confidenze, ad ascoltare le notizie, la cronaca della mia giornata, il racconto dei miei successi scolastici, dei miei dubbi. Quanti discorsi avevamo fatto mentre sgranocchiavo qualunque cosa trovassi in cucina, in attesa che mio padre tornasse dall'ospedale. Nei giorni in cui operava, sapendo che avrebbe tardato e di molto, io e lei pranzavamo al mio rientro, senza attenderlo. Le nostre conversazioni si erano lentamente trasformate in discussioni sugli argomenti che apprendevo con sempre maggiore facilità e lei era diventata il mio maggiore consigliere culturale. Poi era arrivata l'estate, quell'estate, ero andato al campeggio, avevo lasciato gli scout ed era accaduto. Alla ripresa della scuola avevo smesso di parlare con i miei genitori, se non per chiedere denaro. Il panico per non averli trovati in casa giunse da lontano. Non ebbi subito paura, ero abbastanza assuefatto alle difficoltà. Vivevo una vita di espedienti in mezzo a gente abituata a stare per strada. Anche se mi tenevano ancora in casa con loro, ero certo di aver rinunciato all'amore di mamma e papà. Ma era trascorso troppo poco tempo perché ne dimenticassi la dolcezza e non la rimpiangessi. Perciò ebbi paura, quell'angoscia che tutti abbiamo di restare orfani, il timore che diminuisce solo con l'aumentare dell'età. In quei momenti, l'idea che se ne fossero andati, lasciandomi solo al mondo, perché realmente solo sarei rimasto, mi assalì lentamente, spingendomi a piccoli passi verso la disperazione. Dopo mezz'ora ero in lacrime. Non ebbi l'idea di chiamare l'ospedale, per sapere se mio padre fosse là, oppure all'università da mia madre. Non lo feci, perché smisi di pensare. Seduto su uno sgabello in cucina, inanellando le dita con i miei capelli unti, singhiozzavo. Piangevo per me, non per loro. Lo sapevo e me lo ripetevo. Piangevo per la solitudine che avrei dovuto sopportare, privato com'ero stato dei miei genitori prima che riuscissi ad essere realmente un uomo. Questa particolare idea, pensare a me come ad un uomo, mi diede la nausea, perché sapevo di essere quanto di meno somigliante ad un uomo si potesse immaginare. Ero un essere incompiuto, né ragazzo, né uomo, per di più affetto da un vizio ignobile, un finocchio che si vergognava terribilmente di esserlo. Ed ora sarei rimasto solo e senza difesa. Piansi. Scivolai in terra, mi raccolsi su me stesso, cercai di farmi coraggio, stringendomi, abbracciandomi le ginocchia. Mi strinsi la testa in grembo. Finii per addormentarmi, stremato dalla nottata orribile che avevo trascorso, dalla noia sofferta a scuola, dall'ansia per la scomparsa dei miei genitori, dalle lacrime che stavo versando. Arrivarono dopo le tre. Aprii gli occhi e vidi mia madre china su di me, che mi scuoteva spaventata. Era esausta, il suo volto già diceva che era accaduto qualcosa di tremendo. Lo pensai guardandola, mentre mi chiedeva se mi sentissi male. Temeva che fossi morto: mi aveva trovato per terra, accoccolato contro un mobile. L'avevo spaventata, mi disse, poi scappò. Solo allora vidi mio padre. "Ho un tumore, Roby. Siamo stati in ospedale. Me ne sono accorto stamattina." Non mi aveva mai parlato in quel modo. Non c'era più sfida o fierezza nella sua voce. Era come un ragazzo spaventato, sebbene avesse cinquant'anni. Un ragazzo cui avevano appena dato la notizia che la sua morte era vicina. Se vedendoli avevo pensato che, tutto sommato, non ero ancora orfano, né solo al mondo, quelle parole mi fecero ripiombare nella disperazione e scoppiai a piangere un'altra volta. Singhiozzavo senza riuscire a controllarmi. Lui mi s'inginocchiò vicino e fu mio padre, come non era mai stato anche prima che lo rifiutassi, che cambiassi. Ed io tornai ad essere suo figlio, non più il suo antagonista, il suo rivale, nella cura della mia maturazione. Perché era questa autorità su di me che avevo tentato di sottrargli, nel timore che, essendogli troppo amico, lui scoprisse il mio segreto. Mi abbracciò: "Dovrò operarmi. Spero di farcela." Ma io sapevo che non poteva essere vero. Capivo che ad un medico com'era lui non poteva essere sfuggita la gravità del suo male. E poi, se fosse stato convinto anche solo un poco delle parole che mi stava dicendo, semplicemente non le avrebbe pronunciate, ma sarebbe rimasto ritto, davanti a me, chiedendomi con tutta la sua condiscendenza cosa ci facessi seduto per terra a piangere. Perciò sapevo che mentiva. Sarebbe morto e questo mi dava un senso di angoscia che mi soffocava. Avevo sognato di essere orfano, ma poi mi ero svegliato ed avevo creduto che nella realtà nulla di irreparabile fosse accaduto. Non era così, perché mio padre stava morendo davvero e mia madre l'avrebbe seguito presto. Sapevo, ero certo, in quel momento, che lei non sarebbe sopravvissuta di molto alla morte di mio padre. Restammo là per terra, abbracciati, mentre lui cercava di consolarmi ed io tentavo di calmare i singhiozzi che mi scuotevano. Si era sempre vantato di aver costruito il successo professionale, che era notevole, sulla saldezza dei propri nervi. Fare il chirurgo, operare la gente, aprirne il cuore, era la sua professione, ma ne aveva fatto una specie di religione, un codice di comportamento. La nostra casa, quando avevo cominciato a notarlo e poi a criticare apertamente il suo modo di fare, era come una sala operatoria. E noi, io e mia madre, i suoi assistenti, perché tutto funzionasse a dovere. E il piacere che avevo provato nel contaminare con i miei atteggiamenti l'ambiente asettico che, credevo, lui ci avesse costruito intorno, era stato enorme. Solo quel giorno, cogliendo la sua vulnerabilità e la disperazione che anche lui provava, solo quando lo vidi inginocchiato vicino a me, che mi abbracciava, nonostante fossi vestito in un modo che, in un altro momento, l'avrebbe fatto agitare, quando sentii che, per consolarmi, mi accarezzava i capelli, senza badare al fatto che fossero lunghi e sporchi, solo allora cominciai a capire quanto mi sarebbe mancato. Eravamo entrambi imbarazzati per quello che stava accadendo. Fino al giorno prima, ci eravamo detti le cose peggiori ed ora, ritrovarci abbracciati, io a piangere, lui con gli occhi lucidi ad accarezzarmi, era scioccante, anche per uno come lui, abituato a non emozionarsi. Ci scuotemmo, mi aiutò ad alzarmi e mi accarezzò i capelli. "Vado da tua madre" disse e non riuscì a frenare il gesto che, nonostante tutto quello che era avvenuto, ero certo che facesse. Si guardò la mano con cui mi aveva accarezzato e mi sorrise: "Hai i capelli sporchi." Poi però si avvicinò ad accarezzarmeli un'altra volta. Il bisturi non era sterilizzato, i tamponi non erano al loro posto, le pinze non erano in ordine di grandezza, l'ultimo infermiere aveva il camice di un colore diverso. S'era guardato intorno e aveva scoperto che nella sua privata sala operatoria c'era qualcosa fuori posto. Fino al giorno prima, a qualche ora prima, si sarebbe infuriato ed io con lui. Ci saremmo sfidati con gli sguardi ed io gli avrei annunciato gridando la mia decisione di non lavarmi i capelli per un altro anno. Lui mi avrebbe minacciato di cacciarmi di casa. Mia madre avrebbe pianto. Ma mi aveva accarezzato quell'altra volta. Gli feci docilmente di si con la testa ed uscii di casa, senza più parlare. Andai a tagliarmi i capelli. Il barbiere di famiglia, da me abbandonato anni prima, non riuscì a trattenere la lingua e mi chiese il motivo di quell'improvviso ritorno. "Si sporcano facilmente ed è un casino lavarli" ma sapevo che quella risposta non avrebbe acquietato la sua curiosità, anche perché gli confidai che non avevo i soldi per pagarlo. Quello non fu l'unico cambiamento occorso nella mia vita a causa della malattia di mio padre: non presi più droga, non frequentai più le persone che me l'avevano fatta provare e con cui la dividevo, ripresi a studiare. E smisi di prostituirmi. Avevo cominciato quando lui aveva vietato a mia madre di darmi il denaro che chiedevo con sempre maggiore insistenza. Ormai sapeva che mi drogavo e cercava, in quel modo, di impedirmelo. La droga mi era diventata necessaria non tanto perché ne fossi dipendente. Questo per fortuna non era mai realmente accaduto. C'erano stati periodi in cui non avere nulla da fumare o da ingoiare per tentare un viaggio, una fuga dalla realtà, mi rendeva irrequieto, ma non ero mai passato attraverso vere crisi. Cercavo la droga più per solidarietà verso i miei compagni che per un mio disagio personale. Fumavo marijuana e prendevo qualche allucinogeno, ma non mi ero mai bucato. Ero sempre stato molto attento a non perdere mai completamente il controllo su me stesso, perché, avendo un segreto da nascondere, non potevo perdere il contatto con la realtà, perciò i miei viaggi avvenivano sempre con un occhio mezzo aperto. E se questo mi aveva forse salvato dalla dipendenza, non mi aveva impedito di ricorrere a tutti i sotterfugi per procurarmi la droga e soprattutto trovarne per i miei compagni. A me importava solo di avere i soldi per comprarla, perché era l'unico modo per essere accettato in quel gruppo. Che era molto selettivo. Ero certo che non mi avrebbero tenuto con loro se non avessi avuto i soldi necessari a comprare droga per me e soprattutto per offrirne a loro. Era quello il modo con cui mi pagavo l'accesso a quel circolo così esclusivo. Per questo ero arrivato a vendermi, ma l'avevo fatto soltanto quelle volte, poche per fortuna, in cui mia madre non era riuscita a darmi di nascosto abbastanza denaro per comprare quello che mi serviva. Quando tornai a casa con i capelli tagliati e la faccia ripulita dalla peluria che la copriva, corsi nella mia camera a strapparmi di dosso i vestiti laceri che indossavo e li ammucchiai in un angolo per gettarli assieme agli altri stracci con cui mi ero coperto fino ad allora e che da tempo costituivano tutto il mio abbigliamento. Cercai di lavarmi, di togliermi di dosso l'odore cattivo di anni di scarsa igiene, tutta la sporcizia accumulata e non fu facile. Quel giorno feci la doccia più lunga della mia vita. Mi feci cadere addosso tutta l'acqua che potevo, strofinandomi senza pietà fino a provare dolore. Ne uscii con la pelle arrossata, ma pulita. Eppure continuavo a sentirmi addosso un odore rancido e passarono molti mesi prima che riuscissi a scordarlo. Rivestirmi decentemente fu un problema. Andai a cercare un paio di pantaloni che avevo smesso quasi due anni prima e in cui entrai a stento, indossai una camicia ed un maglione che avevo scordato di possedere. Poi mi trascinai da mia madre e le chiesi di accompagnarmi a comprare altri vestiti, non osando chiederle soldi che lei sapeva avrei speso per la droga. Vedermi con il volto ripulito e scorgendo la forma della mia testa liberata dalla nube di capelli incolti che solitamente l'appesantiva, parve svegliarla dal torpore in cui si trovava: "Sei tu... Che hai fatto ai capelli? E alla faccia?" "Non me la sentivo più di portarli così lunghi. E papà ha detto che erano sporchi." Mi espressi con un tono infantile, ma non era per finta. Del resto con lei non era mai accaduto. Quando dovevo chiederle soldi, non avevo che da dirlo e lei me li dava. Finché era stato possibile, non le avevo raccontavo bugie. Le parlai come un bambino, perché tale mi sentivo. "Ho bisogno di qualche vestito, mamma. Non mi va più di andare in giro come ho fatto fino ad oggi! Per favore!" Mi guardò, quasi non avesse capito le mie parole, non credendo a ciò che stava ascoltando. Non credendo a ciò che le dicevo. "Povero amore mio, non hai mangiato niente, vero?" Non avevo mangiato e non me lo ricordavo neppure. In quel momento desideravo solo possedere un abito che mi rendesse almeno un'apparenza di rispettabilità, ma non volevo che si preoccupasse e docilmente mangiai quello che insistette a prepararmi. Lei era incredula, trasognata, scossa dagli avvenimenti della giornata. Prima mio padre che stava per esserle strappato e poi io che le sembravo essere tornato da una lunga prigionia. Ero mancato per troppo tempo. Uscimmo e mi comprò vestiti e scarpe, come se fossi stato un Oliver Twist da rivestire. Non chiese spiegazioni, forse perché già leggeva nei miei pensieri oppure era timorosa di chiedere, spaventata che ripensandoci potessi cambiare idea un'altra volta. E il mio ritorno alla vita parve consolarla, perché in quelle ore di angoscia le pareva di aver ritrovato il figlio. Ed io, capendolo, rafforzai la mia decisione. Sarei stato tutto, quasi tutto, quello che lei aveva sperato per me. Ci avrei provato a costo di morire. Un'altra volta morire. Se non era stato in un modo, avrei provato in un altro. Il giorno dopo tornai a scuola, da dove era come se mancassi dall'ottobre dell'anno prima: ci ero andato quasi ogni giorno, questo almeno l'avevo fatto, ma senza imparare nulla, rifiutandomi anche di ascoltare. La promozione del terzo anno era arrivata perché ero abbastanza bravo ad improvvisare e godevo ancora di molto credito presso i professori. Così almeno dicevo a me stesso, in una parvenza di orgoglio, ma sapevo che mio padre aveva brigato per farmela ottenere. Me lo disse qualcuno, ma non trovai mai il coraggio di chiederlo a lui direttamente. Al quarto anno invece era tutta un'altra storia. Avevo nuovi docenti che non mi avevano conosciuto nella mia vita di prima e per i quali ero uno da bocciare, senza pensarci tanto. Da allontanare da scuola. Una mela marcia. E lo ero veramente. Quella mattina tornai a scuola, entrando alla prima ora, con tutti gli altri. Affrontai lo sguardo incredulo dei miei compagni e quello diffidente dell'insegnante di lettere. Alla fine dell'ora andai a cercarla nella sala dei professori e chiesi di poterle parlare. Era una donna dura, esigente. In genere riusciva ad intuire le lacune in ogni preparazione e le sfruttava. Sapevo che lo faceva perché non crescessimo con l'idea di ottenere tutto con poco. Con lei non ero riuscito nel mio gioco di fingere di sapere. Avevo trascorso la notte sveglio, non cercando neppure di addormentarmi. I miei occhi erano restati ostinatamente aperti, le pupille dilatate, come se avessi fiutato cocaina, ma la droga che avevo assunto era un'altra, più subdola: il mio istinto di sopravvivenza, il rimorso e i sensi di colpa verso mio padre che stava morendo, una specie di ricerca masochista del dolore spirituale. Quelli erano ingredienti di uno straordinario miscuglio che mi aveva strappato al desiderio di morte e d'annullamento che cercavo di soddisfare con la mia vita vagabonda e inconcludente. Rigirandomi nel letto, avevo avuto più volte l'impulso di andare a comprarmi la droga. Sarebbe bastato che uscissi di casa, avevo dei soldi, mia madre aveva insistito per darmeli, ma non mi ero mosso. Una forza misteriosa mi aveva incatenato al letto. Invece di tornare a drogarmi, avevo pensato e pianificato un'altra volta la mia vita futura. L'insegnante fu stupita dal mio aspetto pulito e rispettabile, ma certamente non se ne commosse. Senza la mia chioma incolta e la barbetta ispida, sapevo di avere l'aspetto smunto di un orfano. Allo specchio quella mattina mi ero riconosciuto a stento. "Ho deciso di cambiare tutto nella mia vita e vorrei che lei mi aiutasse" le dissi tutto d'un fiato "So che dovrò lavorare molto, ma devo essere promosso. Mi aiuti, la prego!" Glielo chiesi con una voce normale, né supplichevole, né beffarda: era un desiderio quello che esprimevo e speravo la colpisse, almeno per la bizzarria. Lei, invece, non ritenne vera neppure una delle mie parole. "E perché dovrei aiutarti? Solo perché ti sei lavato e ti sei fatto la barba? Come posso credere ad uno come te? So quello che fai e come vivi. Credi che non abbia notizie di te? So più cose di quante ne voglia sapere tuo padre..." In quel momento non mi importava capire cosa intendesse. E non volevo raccontarle le mie vere ragioni: di mio padre, del mio rimorso, del desiderio di espiare, del bisogno di punirmi meglio di come avessi fatto fino ad allora. La malattia era un fatto privato che, finché fosse stato possibile, non doveva essere conosciuto da nessuno al di fuori della famiglia, me l'aveva chiesto lui espressamente la sera prima. E poi c'erano le altre ragioni, i miei segreti più profondi, che erano appunto segreti e non potevo rivelare a nessuno, perché se conosciuti da altri avrebbero perso la loro potenzialità punitiva. Ed io dovevo soffrire, angustiarmi. "Mi aiuti, per favore" ripetei "Se non ce la faccio, mi boccerà lo stesso. Non le costerà nulla e almeno avrò tentato. Non mi drogherò più, non voglio più farlo!" "E quando è stata l'ultima volta che ti sei drogato?" insistette. "L'altra notte" dissi con un filo di voce "mi sono bucato" le rivelai, quasi senza volerlo, sentendo, capendo in quel momento quanto fossi poco credibile "ma è stata la prima e sarà anche l'ultima! Che mi creda oppure no!" Lo dissi e già piangevo. Non avrei voluto, non pensavo di umiliarmi tanto, ma avevo perso la mia sicurezza e il pudore se n'era andato anni prima, con la rispettabilità. L'amor proprio, il mio amor proprio non esisteva più. "Piagnucolare come stai facendo non è abbastanza per convincermi che hai smesso davvero" insistette lei "E potrei sapere cos'è accaduto per farti cambiare idea improvvisamente? Forse è cambiata la moda e adesso vi vestite meglio, per andare a comprare la droga?" Mi scherniva, mi provocava, ma non le badai: "Ho deciso di smettere" insistei "voglio mettermi a studiare!" Alzai la voce, perché ormai ero esasperato, cominciai a tremare. "Se vorrà aiutarmi, per me sarà più facile, altrimenti io studierò lo stesso e quando arriverà la fine dell'anno scolastico mi giudicherà. Se mi boccerà, vuol dire che me lo sarò meritato." "Tu ti sei meritato e meriterai tutte le cose brutte che ti capiteranno" disse lei fissandomi "Ci vuole un miracolo per te. Lo sai? Mancano due mesi alla fine dell'anno scolastico e sono due anni che non hai più letto una sola pagina d'un libro! Credi che non me ne sia accorta? Come speri di farcela?" Glielo spiegai. Con calma, con una freddezza che mi spaventò. Quello che le dissi era difficile e pericoloso per me, la durezza del mio impegno, l'avventatezza delle mie promesse. Ci avevo pensato tutta la notte. "E allora studia" concesse finalmente "dovrai dimostrarmi ogni giorno quello che stai facendo e vedi di non commettere errori. Errori di qualunque genere e gli errori che sai!" Non promise di aiutarmi, ma almeno si sarebbe interessata a me. Con gli altri fu un po' più facile. A tutti proposi di interrogarmi di lì ad un mese sulla prima metà del programma di quell'anno. Avrei studiato anche di notte e recuperato in tutte le materie: già sapevo che non avrei dormito molto. E se quella prima interrogazione fosse andata bene, mi sarei impegnato ancora e mi avrebbero risentito alla fine dell'anno su tutto il programma. Per i compiti scritti si sarebbe visto come fare. Qualcuno mi propose addirittura di farmene ripetere alcuni per alzarmi la media. Era una follia, ma non avevo scelta. Dovevo tenere occupata la mente se non volevo andare più in giro con i miei soliti amici e se volevo smettere di drogarmi. Dovevo studiare fino a stordirmi, se volevo essere promosso. Rifeci l'esperienza di scacciare ed uccidere la bestia che era in me, cercandone una più forte, più potente di cui divenni immediatamente schiavo. Affogai tutto me stesso in quello studio forsennato. Non uscii più di casa, se non per andare a scuola e là non parlavo con nessuno, se non per chiedere spiegazioni su argomenti che non avevo capito dai libri. Fu una rincorsa pazzesca. Da tempo non avevo più nulla da perdere, mi sentivo in un pozzo profondissimo. Ero sul fondo e giravo attorno, battendo la testa sulle pareti di pietra. Non era un incubo, una visione, il sogno angoscioso di un drogato che smette all'improvviso, ma l'immagine razionalmente costruita per descrivere me stesso e il mio stato. Lo scrissi in un tema e ottenni un buon voto dall'insegnante di lettere. Quel giorno mi chiamò nella sala dei professori. Non mi disse nulla, ma mi accarezzò la guancia. Quando capii che non avrebbe parlato, me ne andai. Forse eravamo commossi tutti e due. Ebbi la sufficienza in quasi tutte le materie e qualcosa di più in italiano, latino e greco. Ero sempre stato promosso con il massimo e quelli non erano voti di cui andare orgoglioso, ma mia madre fu felice alla notizia e mio padre, quando gli portai la notizia in ospedale, scoppiò a piangere. Che io ricordassi, era la prima volta che accadeva. Poi, con l'incalzare della malattia, lo fece sempre più spesso. Quella notte piansi anch'io. Non ero emozionato per la promozione e non piangevo certamente per sollievo: avevo soltanto paura, ero terrorizzato d'aver perduto, per i successivi tre mesi, il modo di tenere occupata la mente. La mia discesa in fondo al pozzo si era conclusa iniettandomi la mia prima ed unica dose di eroina, proprio quella notte, poche ore prima che mio padre radendosi scoprisse di essere ammalato. Era stata una caduta, un veloce rotolare verso il basso. Ma qualche volta, quando guardo a quegli anni credo di riconoscere un più preciso disegno nella mia vita, nel mio destino. Fu il giorno in cui lasciai Paoletto, quando l'abbandonai a se stesso sulla montagna, senza più parlargli, che caddi rovinosamente in un inferno dal quale potevo soltanto risalire. La droga, il sesso, i viaggi, accettare la morte di mio padre, le promesse che gli feci, furono solo prove di cui fu disseminato il mio ritorno alla luce. Cominciai a prostituirmi in autunno, un anno dopo che avevo abbandonato Paoletto. Ci andavamo in due, io e Valerio, biondino, magro. Divenne scheletrico quando cominciò a bucarsi. Aveva compiuto i diciotto anni, ma pareva anche più giovane di me. La sua famiglia non era ricca come la mia e lui era sempre alla ricerca di qualche soldo per comprarsi pastiglie, un po' di fumo, poi roba più pesante. Io, grazie a mia madre, avevo meno bisogno di denaro e cercavo di non abusare con le droghe, usandone meno di quanto facessero i miei compagni. Quando trovare i soldi divenne indispensabile, cominciai ad accompagnare Valerio. Ci andavamo di sabato, prendendo il treno alle due del pomeriggio. Arrivavamo due ore dopo. Non lo facevamo nella nostra città solo per orgoglio. E poi Valerio non era gay, non credeva di esserlo. E in ogni caso, quando non era fatto, gli diventava duro per le donne, cosa che a me non era mai riuscita, per quanto l'avessi desiderata con disperazione. Comunque, non volevamo fare marchette dove potevano vederci e riconoscerci. Battevamo intorno alla stazione centrale. Era perfino comodo, perché appena scesi dal treno eravamo nel posto giusto. Nei sottopassaggi, vicino alle toilette, accanto al deposito bagagli, appoggiati alle colonne, aspettavamo i clienti. Me l'aveva proposto Valerio, quando mi aveva visto a corto di denaro. Un sabato c'ero andato anch'io e l'avventura era cominciata. In treno mi spiegò meglio alcune cose. "Se va bene facciamo un sacco di soldi, ma senza strafare. Io decido sempre prima quanto mi serve e quello che voglio guadagnare. Devi sempre dire tu che cosa vuoi fare o farti fare e quanto devono darti. Non lasciarti convincere se non sei proprio sicuro. E poi tu sei carino, troverai sempre qualcuno che ti vorrà. Però devi dirgli che hai appena compiuto diciotto anni. Non è vero e tanto loro non ci credono, ma tu glielo hai detto e quelli si sentono con la coscienza a posto. E forse ti danno più soldi!" Anche lui era carino e pensai che, se avessi avuto soldi, l'avrei pagato per un pomeriggio con me. Mi venne duro, ma ero troppo triste e preoccupato per badarci. Il mio uccello si adeguò allo stato d'animo e tornò tranquillo. Il mio primo cliente, Valerio contrattò per me, fu un signore dell'età di mio padre che mi portò in una specie di anfratto metropolitano, in fondo ad un sottopassaggio in disuso. Appena ci fummo nascosti, mi chiese di prenderglielo in mano. Se avevo avuto qualche dubbio, oppure l'idea di sentirmi imbarazzato in un momento come quello, non accadde nulla del genere, perché non provai alcuna vergogna, né mi identificai in alcunché. Non pensai che quell'uomo potesse essere come mio padre, o lui stesso. E che io non avessi desiderato altro per tutta la vita: tenere in mano l'uccello di mio padre e giocarci, stringerlo e, ridendo, fargli male. Non pensai nulla di simile. Glielo menai serenamente e quando mi chiese di farmi toccare lo lasciai fare. Mi abbassò la cerniera e me lo tirò fuori. Mi diventò duro. Valerio mi aveva messo in guardia dall'eiaculare con i clienti: non era consigliabile, se non lo si era contrattato e quindi messo in conto. Perciò non mi concentrai, anche perché non c'era nulla di eccitante in quello che stavamo facendo. L'uomo volle anche baciarmi e mi lasciai abbracciare e baciare, ma solo sul collo. Non provai ribrezzo, perché profumava di un buon dopobarba ed era molto pulito, al contrario di me che non mi facevo una doccia da chissà quanto tempo. Dopo che fu venuto, tirò fuori un fazzoletto e sempre gentilmente mi chiese se volessi pulirlo. Feci anche questo. Quindi mi pagò e tornammo in stazione. Valerio era rientrato anche lui e volle subito sapere com'era andata. "Ti sei fatto un cliente! Quello, sabato prossimo, lo trovi qua! Ma non dovevi farti baciare: la prossima volta ricordati di chiedergli di più." Ci furono altri clienti, altri pomeriggi tristi, altre mie svogliate partecipazioni ad atti sessuali, per nulla eccitanti. Il mio cazzo diventava duro per la sollecitazione che riceveva, mai per eccitazione vera. Da quel punto di vista ero anche un po' deluso. Quando tornavamo, il sabato notte, i nostri amici ci aspettavano per scroccarci quello che avevamo comprato con i frutti del nostro lavoro. A giorno fatto tornavo a casa. Senza emozioni, senza rammarico per l'innocenza che stavo perdendo, dove, come e quando. Ammesso che me ne fosse rimasta, dopo ciò che avevo fatto. E se ne avevo ancora erano i suoi resti che calpestavo con stizza. Quello che più ricordo di quei giorni è che non avevo rimorsi, per nulla, né per la vita che facevo, né per me stesso, nessuna vergogna a mostrare le mie nudità a sconosciuti o imbarazzo a lasciarmi toccare da mani ignote, a toccare io stesso membra belle o brutte. Non provavo nulla, a parte la consapevolezza che quei piccoli disagi mi avrebbero fornito il denaro sufficiente a pagarmi quello di cui avevo più bisogno. La compagnia cui mi ero aggregato già in quel caldissimo agosto, dopo il campeggio, era formata da ragazzi e ragazze delle età più varie ed io ero fra i più piccoli. Allora si identificavano in un gruppo di estrema sinistra che poi si volse in anarchia ed infine esplose. Alcuni pezzi finirono nell'eversione e nella lotta armata, altri, come me, nelle dipendenza dalle droghe, più o meno pesanti. Quell'estate s'incontravano in un angolo appartato d'un giardino pubblico dall'altra parte della città. Per essere uno di loro, cominciai a vestirmi come uno straccione, a cercare pantaloni fuori moda e fuori misura, magliette sdrucite. Abbandonai l'igiene e il rasoio che usavo già molto saltuariamente, visto che la mia barba era solo un'ombra sul viso, soltanto una peluria. Ma lasciai che mi invadesse il volto come una nebbia, quasi potesse nasconderlo. Non so cosa mi affascinasse in quei ragazzi. Non i loro discorsi politici che non capivo. Certamente fu il loro anticonformismo, la libertà in cui mi pareva si muovessero. Scoprii che la loro aspirazione era soprattutto quella di ignorare quei tabù che invece irrigidivano gli ambienti che avevo frequentato fino ad allora. Mi sembrò che non si lasciassero condizionare da nessuna delle convenzioni borghesi che anzi combattevano apertamente. Non subivano influenze dalla religione che dicevano di ignorare, piuttosto che avversare. C'era però una cosa in loro che mi deludeva. Nel loro desiderio di libertà, scordavano un aspetto che era invece della massima importanza per me: tra loro i maschi erano maschi e tutti orgogliosi di desiderare le femmine che, a loro volta, erano fiere di avere qualcosa da offrire. Era una specie di sacramento amministrato con liturgie di cui erano gelosissimi. Dimenticavano, né io avevo voglia di ricordarglielo, che esistevano altri tipi di desideri. Se libertà doveva essere, pensavo, era ingiusto che non lo fosse anche per me, che ero ben conscio di essere com'ero. Ma li avevo trovati ed ero cosciente che in caso contrario sarei impazzito. Cosa ci facessi in quel gruppo non saprei dirlo, ma sapevo che non avrei trovato altro luogo dove andare oltre a quello, perciò mi aggregai, inventando a mio proprio beneficio e per spiegazione a chi me lo avesse chiesto, una sorta di mistica astinenza sessuale. Ad ogni modo, essendo tra i più piccoli d'età, ero poco considerato come possibile conquista dalle ragazze e troppo poco in vista perché ci si preoccupasse di me. E poi una delle regole auree del gruppo, quella che più apprezzavo, era che ognuno si facesse, scrupolosamente i fatti propri. Prima che cominciasse l'inverno occupammo la scuola. Come in un copione scritto e recitato con fervore da tutti, corremmo a sbarrare le porte e ci proclamammo in assemblea permanente, sfasciando qualche banco. L'occupazione durò due settimane, durante le quali dormii ogni notte a scuola. E quello fu un periodo difficile per me, perché ogni notte dovetti cercare una scusa valida per non farmi scopare da una delle ragazze che l'avrebbero voluto fare. Il mio aspetto non era cattivo e poi, anche se anarchici e comunisti, tutti sapevano che ero ricco di famiglia e quindi con molti soldi in tasca. Insomma era piuttosto desiderato. Una notte non riuscii a mettermi in salvo e mi ritrovai in un sacco a pelo con una ragazza un poco più grande di me per quello che doveva essere il mio battesimo del sesso ed è rimasta l'unica esperienza del genere nella mia vita. Ero un po' fatto. Avevo già bevuto una birra. Uno spinello fumato insieme a lei mi aveva portato ad uno stato di ebbrezza che mi liberò della ragione, della volontà e del giudizio. Credo anche di averle detto 'ti amo'. Quella mi baciò, poi l'abbracciai e non ricordo altro che le nostre mani cercare freneticamente di spogliarci. L'ultima sensazione, prima dell'oblio, fu l'odore che percepii quando lei fu nuda ed io la toccai fra le gambe. Il resto, se è veramente accaduto, non posso che figurarmelo nella mente. Quella notte eiaculai, perché quando mi svegliai il mio cazzo era sporco di sperma rappreso, ma dov'era il mio uccello quando questo accadde non saprei dirlo. È una domanda alla quale non ho mai dato un risposta certa, né mi è mai importato saperlo. Il giorno dopo lei sostenne che le fossi dentro fino ad un attimo prima di eiaculare. Mi svegliai perché c'eravamo infilati nello stesso sacco a pelo e ci si stava scomodi. Immediatamente mi assalì il ricordo dei miei campeggi e di un altro risveglio, fra le braccia di Marco e scoppiai a piangere. Mi tirai fuori, scalciando, svegliando la ragazza, spaventandola. E corsi via, non sapevo dove. Mi fermò solo la coscienza che non avrei davvero avuto altro luogo dove andare, né posto dove nascondermi. Spinelli, birra, vino, quegli amici, qualche pastiglia: che altro c'era nella mia vita? L'occupazione, l'anarchia o il comunismo, non avevo ancora deciso. Un'idea in cui credere e soprattutto lo stato da combattere, le vetrine da rompere, le cariche della polizia. E poi la rivoltella nascosta nella scuola. La paura di essere arrestati tutti. Restai e finsi di credere al sesso libero, alla scopata che forse non avevo fatto. Se fossi uscito dalla scuola sarei dovuto tornare a casa ad ascoltare mio padre, se l'avessi incontrato. Non c'era luogo dove potessi andare. In quei giorni, in quei mesi, ci drogavamo tutti. Avevamo una specie di fumeria nella città vecchia. Era una serie di locali affittati non so da chi e pagati da qualcun altro per chissà quale motivo. Era la sede del movimento, la fucina delle idee più eversive e ha fornito molti nomi prima alle cronache criminali e poi alla politica. Nella penultima cameretta, in fondo, si fumava quasi in continuazione. Chi come me aveva denaro e sapeva dove rifornirsi, offriva agli altri un tiro allo spinello, talvolta qualche pastiglia di acido. Nelle pause si discuteva. Nell'ultima camera si progettavano espropri proletari, i primi attentati, si preparavano le bottiglie molotov e forse anche peggio, ma di quello per fortuna non ebbi mai certezza, né fui messo a parte da alcuno, perché ero troppo piccolo e ritenuto perfino un po' sciocco. Il ricordo di quanto male reggessi la droga era ancora vivo in tutti. Presto però divenni un esperto nella preparazione degli spinelli, me la cavavo anche negli interventi alle assemblee scolastiche, riuscendo a parlare per minuti senza dire nulla di concreto, nell'elaborazione di volantini illeggibili. Arrivai a leggere Bakunin. Non tutto. La mia mente, com'era accaduto per la scuola, era occupata, ma le mie idee, i miei veri pensieri in uno sciopero continuo e permanente e quello mi bastava. Riempii le mie giornate di parole senza senso. Detti un significato alla sfacelo della mia vita e lo tinsi di politica, consacrandomi ad un'idea che intimamente non condividevo. Ma ero in un branco, in una tribù, e la mia gente correva in quella direzione. Trascorse del tempo, alcuni mesi, prima che un gruppo di noi scegliesse di abbandonare la linea di ortodossia dei nostri leader e si staccasse per andare a sperimentare una libertà fatta di espedienti. L'alternativa era fra l'essere semiclandestini, quasi a supporto della lotta armata, oppure lasciarci prendere nella spirale di un anticonformismo utopistico che divenne uso di stupefacenti e la ricerca del denaro per procurarceli. A quell'epoca, in primavera, mia madre e qualche altro genitore ansioso, passavano ancora abbastanza soldi perché ci fosse roba per tutti. L'obiettivo, molto minimale e poco consapevole dei destini dell'umanità, era di giungere all'estate, possibilmente con la promozione a scuola per andarcene in gruppo ad Amsterdam a conoscere altre realtà. E non per un arricchimento culturale, ma per assaggiare altre qualità di birra e soprattutto fumare liberamente quello che ci pareva. N.d.A. Nella mia vita ho fumato in tutto non più di cinque sigarette, non ho mai sperimentato personalmente alcun tipo di droga e non ne condono l'uso in alcun modo e per alcun motivo. lennybruce55@gmail.com