Date: Mon, 17 Jan 2011 22:53:32 +0100 From: Lenny Bruce Subject: Le Storie di Dino DISCLAIMER: The following story is a fictional account of young teenage boys who are in love. There are references and graphic descriptions of gay sex involving minors, and anyone who is uncomfortable with this should obviously not be reading it. All characters are fictional and any resemblance to real people is purely coincidental. Although the story takes place in actual locations and establishments, the author takes full responsibility for all events described and these are not in any way meant to reflect the activities of real individuals or institutions. The author retains full copyright of this story. LE STORIE DI DINO 1. C'è una ragione Si può sempre spiegare tutto. Il motivo per cui a Dino capitava di vivere come viveva era da ricercare lontano nel tempo, da molto prima che lui nascesse e poteva individuarsi nel momento in cui suo padre, allora proprio della sua stessa età, entrò nella biblioteca del liceo, quello stesso frequentato ora da Dino, per cercare un atlante del corpo umano. Il giorno dopo doveva essere interrogato in biologia e non aveva capito da che parte passasse il sangue per arrivare al cuore. E, dato che aveva deciso di diventare medico, gli pareva che fosse giusto e responsabile, da parte sua, informarsi e colmare quella lacuna. D'altronde a sedici anni si fanno tanti pensieri e quel giorno i suoi pensieri erano al dieci per cento per la circolazione sanguigna e al novanta per cento per la futura mamma di Dino. Entrando in biblioteca però, si accorse di avere una scarpa slacciata, cosa che gli accadeva spesso. Di averla, non di accorgersene. Quella volta, era il destino, si avvide di quel laccio indisciplinato. Si chinò per legarlo meglio, magari facendo un doppio nodo, quando per terra, sotto una sedia, scorse un libretto molto sottile. Lo raccolse e vide che era un'edizione economica della `Critica della ragion pura' di Kant. Se il laccio non si fosse sciolto, se il papà non fosse stato curioso, se il libro non fosse caduto, un milione di se dopo, Dino si ritrovò figlio di un bravo, onesto professore di filosofia, apprezzato insegnante di liceo e di una altrettanto brava insegnante di matematica delle medie, il cui reddito complessivo riusciva a consentire una vita decorosa alla famiglia e ai tre figli, Dino e due sorelle gemelle più piccole. Per i vizi, i divertimenti, i bei vestiti, il motorino, tutte le belle cose che si possono comprare, non c'erano i soldi. Ma ci sarebbero stati se papà quel giorno non si fosse chinato ad allacciarsi la scarpa, non avesse visto il libro, non l'avesse raccolto, non si fosse incuriosito per il titolo, non l'avesse letto quasi tutto là stesso. E l'avrebbe fatto se non l'avessero chiamato, dopo un'ora che lo cercavano dovunque. Ci sarebbero stati i soldi se il papà, invece di diventare un maniaco della filosofia, avesse lasciato perdere quel libro ed avesse cercato l'atlante di anatomia, appassionandosi quindi alla medicina. Forse sarebbe diventato medico e quindi ricco. E Dino avrebbe avuto tutto quello che desiderava. Ma il papà era soltanto un professore di filosofia e Dino il figlio sfigato di uno che non aveva abbastanza soldi per comprargli tutto quello di cui i ragazzi hanno bisogno per essere felici. Soprattutto avrebbe avuto i soldi per giocare con i videogiochi della sala all'angolo, sotto casa. Non sarebbe stato costretto a giocare a credito, facendo debiti con Angelo, il gestore, sapendo bene che non avrebbe avuto alcun modo di ripagarlo. Quando il debito raggiunse le cinquantamila lire, che in quei giorni erano davvero tante, Angelo glielo rammentò con una certa fermezza. "Quando hai intenzione di restituirmele?" "A natale le avrò certamente da mio nonno..." tentò Dino. "Ma io non aspetto natale, se adesso è solo ottobre" tagliò corto Angelo "domani voglio i soldi". E Dino si sentì avvampare, perché stava per piangere. Era come gelato dalla paura che gli venne addosso. Cinquantamila lire non le avrebbe mai trovate. Non nei salvadanai delle sorelle da cui aveva già attinto, con e senza il loro permesso, né da mamma o papà che non gli davano soldi, perché sapevano che andava a spenderseli quasi tutti ai videogiochi. I soli soldi che riceveva erano per le piccole spese ed erano controllati dagli scontrini che doveva riportare ogni volta. Papà era un filosofo, ma era anche uno molto preciso e la mamma era anche peggio, non riusciva a fregarli in alcun modo. Quindi di là niente. E Angelo era uno che non scherzava. Certamente non l'avrebbe fatto più entrare nella sala e poi chissà che poteva fargli per riavere i soldi. Si raccontavano strane storie su di lui. Che era in contatto con la mala, che di notte, nella saletta sul retro si giocasse forte a carte. Erano solo storie, forse, ma c'era anche chi, tra i più grandi, raccontava di un giro che c'era stato anni prima, in un'altra sala, gestita da Angelo, di ragazzi che dopo aver contratto debiti erano stati costretti ad incontrare uomini più grandi, in certi appuntamenti. E là c'erano sempre le risate nervose di qualcuno: "Si... appuntamenti del cazzo!" Dino non capiva di che parlassero quelli, ridacchiando e dandosi gomitate. Non avrebbe mai ammesso di non sapere o non capire. Ridacchiava, ma non capiva. Una volta l'aveva chiesto a Gerry, il suo migliore amico, ma neanche lui ne sapeva nulla. Comunque, la sala giochi aveva per lui, in quel momento, una fama sinistra e doveva trovare quelle maledette cinquantamila lire. Provò con Gerry, il quale naturalmente non le aveva, né tanto meno sapeva dove trovarle, ma gli diede un suggerimento. "Chiedi ad Angelo come puoi procurartele. Lui ha sempre qualche idea. Magari ti dà un lavoro!" E così fu che il giorno dopo, invece di dargli i soldi, chiese aiuto. "Si... posso vedere di trovarti qualcosa. Te l'ha detto Gerry di chiedere a me?" "Si, ma tu come lo sai?" Angelo ignorò la domanda e continuò a guardare fra le carte nel cassetto, poi, dopo un po', parlò senza neppure alzare gli occhi. "Solo per questa volta e perché voglio farti un favore." Dino tirò un sospiro di sollievo. Quella notte non aveva dormito, pensando al momento in cui avrebbe confessato ad Angelo di non avere i soldi e di non sapere dove trovarli. "C'è un mio amico che fa fotografie" continuò Angelo "ti interessa?" "Eh... si... fotografie? In che senso?" Era disorientato. Per capire, forse aveva capito. Frequentava la sala da almeno sei mesi e una volta qualcuno aveva accennato a certe fotografie che si andavano a fare da un amico di Angelo. O almeno gli pareva di ricordare qualcosa di simile. "Nel senso" precisò Angelo brusco "che tu mi devi dare cinquantamila lire. Me le dovevi dare oggi e non le hai, vero?" Lui fece di no con la testa. "E quindi non me le puoi dare. Allora io ti propongo, in cambio, di farti fare delle fotografie da questo mio amico. Tu farai da modello per lui. E a me vengono venticinquemila lire che sono la paga per questo servizio. E sono le metà di quanto m i devi!" "La metà?" Non che volesse davvero mettersi in quel guaio, ma almeno sapere di potersi tirare fuori con quelle foto, l'avrebbe aiutato. Una volta sola, qualunque cosa fosse. Solo che Angelo voleva fregarlo. Lo capiva, ma non poteva farci niente. "E che genere di foto sarebbe?" "Vai là. Stasera, dopo le otto e mezza" disse Angelo spazientito, invece di spiegare "Fai quello che ti dice di fare. Non combinare casini e se fai bene, mi darà venticinquemila lire ed io aspetterò qualche altro giorno per il resto. Se non gli vai bene o ne combini qualcuna delle tue... allora stai attento, perché ho il modo di prendermi tutto quello che mi devi e anche di più. E se non ci riesco, posso sempre divertirmi con te. Capito?" Più che spaventato, Dino era un'altra volta raggelato. Nessuno l'aveva mai minacciato, né gli aveva mai parlato a quel modo. Quelle parole l'avevano precipitato nel terrore. "Questo è l'indirizzo" disse ancora Angelo, tornato alla sua solita voce piatta "alle otto e mezza. E guai a te se fai casino!" Se ne andò incredulo, stringendo fra le dita la striscia di carta con scritto l'indirizzo. Camminò come un automa fino ai giardinetti che erano là davanti e si buttò su una panchina. Erano le cinque del pomeriggio ed aveva ancora più di tre ore per pensare ad un modo di sottrarsi al suo destino, magari trovando cinquantamila lire. Naturalmente, non gli venne nessuna buona idea. Dopo un poco si avvicinò Gerry. "Che cazzo hai? Sembri uno zombie!" Era tentato di confidarsi con l'amico, ma quello che stava per fare, ciò che già immaginava di accingersi a fare, glielo impediva. Quando Angelo aveva parlato di fotografie e poi l'aveva obbligato ad andarci, le tessere del puzzle, le insinuazioni, mezze parole, ammissioni, ascoltate in sei mesi di frequentazione della sala giochi si erano ricomposte nella sua mente, rivelando un disegno che l'aveva prima sbalordito, poi schifato, quindi incuriosito ed infine fatto arrapare come niente prima nella sua vita. Adesso era arrapato come un riccio. Come diceva sempre Gerry che l'aveva letto in un giornalino porno. Ormai sapeva che avrebbe fatto da modello per delle foto particolari e che quasi sicuramente si sarebbe dovuto spogliare. E lui, che era molto vanitoso ed era certo di essere bello, trovava la cosa estremamente eccitante. Certo che sarebbe andato bene a quel fotografo di cazzi. Ma era una cosa che lo spaventava anche. Da questo, a dirlo a Gerry, comunque, ce ne passava. Anche se Gerry sapeva di quel debito e di qualche altro soldo che doveva dare in giro. Se avesse notato che Angelo non gliene chiedeva più la restituzione avrebbe voluto saperne di più. Anche perché loro due non si nascondevano nulla. O quasi. Non si dicevano tutto, perché Dino nascondeva all'amico alcuni pensieri e qualche azione. E Gerry non gli parlava mai di come trascorreva il tempo in cui non erano insieme a scuola o alla sala giochi. E anche, a pensarci bene, di dove trovasse i soldi per giocare. E Gerry giocava continuamente. "Ehi! Che ti ha detto quello per le cinquantamila lire?" "Mi ha dato una settimana di tempo" mentì, infilandosi con noncuranza l'indirizzo in tasca. "Davvero? E come ci sei riuscito? Con Angelo non è possibile prendere tempo quando vuole una cosa." "Gli ho detto che me li darà mio nonno." "Ed è vero?" "Forse..." poi pensò che era una scusa buona e la rese più credibile "mio nonno ha avuto gli arretrati della pensione e forse darà qualcosa a noi nipoti." "Forse? A quello" e indicò la sala "hai detto forse?" "No..." "Oh! Beh, stai attento." "Perché, che ne sai tu?" "Te li ricordi quei due della sezione B? Quelli che venivano prima dell'estate?" "Si..." "Li hai più visti?" "No, ma... non so, forse vanno a un'altra sala." Gerry dondolò la testa, con aria molto saccente. Era un gesto che faceva andare in bestia Dino, ma quella volta era troppo interessato. "Beh? E perché non ci vengono più?" "È stato Angelo. Pare che li abbia fatti prendere a botte da Gustavo e dall'Ombra!" Che erano una coppia di bulli sui vent'anni, utilizzati da Angelo per mantenere l'ordine nella sala ed anche, pareva, per qualche altro lavoro meno lecito. L'Ombra era quello tanto magro, da non vedersi nemmeno, il più bastardo. "E perché? Che avevano fatto?" "Pare che gli dovessero dei soldi e che non si siano più fatti vedere." "Loro abitano lontano, ma noi stiamo qua sopra" Dino indicò casa sua "Dove scappiamo?" "Se te li dà tuo nonno" fece Gerry sorridendo "perché devi scappare?" "Già!" disse e si rigirò in tasca l'indirizzo. Ma gli parve che Gerry lo stesse esaminando con la sua faccia furba. Anzi che gli stesse leggendo nel pensiero o nella tasca. Lo lasciò là, senza dire una parola. S'incamminò verso il posto dell'indirizzo, perché voleva dare un'occhiata allo studio fotografico dove avrebbe dovuto esibirsi. Non aveva dubbi sul tipo di foto che gli avrebbero chiesto di fare, perciò non si sorprese quando, invece di trovare un negozio di fotografia, oppure un vero studio, si accorse che sarebbe dovuto andare in una casa privata, un appartamento in condominio, con tanto di targhetta con il cognome del proprietario. Che corrispondeva a quello scritto sul suo foglio. Fu tentato di suonare, di guardare in faccia chi gli avesse aperto, ma non ne trovò il coraggio, memore delle minacce di Angelo. Girellò nel quartiere fino alle otto e venticinque, fermandosi davanti a ogni vetrina e guardandosi in ogni specchio che gli capitasse. Per essere bello, era bello. Glielo dicevano tutti e lui lo sapeva. Alto, biondo, magro, qualche muscolo al posto giusto, viso regolare, delicato, ancora senza un'ombra di barba. Quest'ultima cosa lo disturbava un po', ma si consolava vedendo suo padre che quasi non ne aveva. Finalmente schiacciò il pulsante del campanello che produsse un suono discreto, educato, di breve durata. Gli aprì un uomo basso e magro sui cinquanta, dall'aria mite e rassicurante. "Tu devi essere Dino" disse, con una voce da prete e Dino si sentì tranquillizzato da quell'aria domestica, serena. "Si, io..." "Lo so perché sei qua. Vieni!... Allora? Angelo ti ha detto che devi fare?" E non attese la risposta, precedendolo in casa. Attraverso un corridoio entrarono in una camera spoglia. C'era soltanto un drappo che copriva tutta una parete, forse quella con la finestra, una specie di grande dormeuse, una grossa macchina fotografica su un treppiedi e due riflettori da studio. Dino sentì scemare insieme l'eccitazione e la paura che insieme gli avevano stretto lo stomaco per tutto il pomeriggio. Forse si era inventato tutto, lui aveva una bella fantasia, pensò. Forse doveva solo assumere pose plastiche, artistiche. E questo gli sarebbe piaciuto lo stesso, perché la sua vanità ne sarebbe stata ugualmente gratificata. Per un po' l'omino armeggiò con l'attrezzatura, aumentando e diminuendo la quantità di luce. Poi spostando più volte i riflettori. Dino gli si stava già rivolgendo per chiedere se poi gli sarebbe stato concesso di vedere gli scatti, per sceglierne qualcuno, quando sentì la voce cordiale dell'uomo pronunciare queste parole: "Mettiti davanti al divano e ogni tre scatti del flash ti togli un indumento! Capito? E non guardare mai nell'obiettivo" ci pensò un po' su, poi aggiunse "È la prima volta, perciò non fare facce strane, quando sei in posa... cerca di essere il più naturale possibile!" Dino, a quel punto, seppe con certezza cos'era andato a fare là. Con il cuore in gola per l'emozione e la vergogna, perché sarebbe stato ripreso anche in viso, l'aveva capito ormai, si mise in posa per i primi scatti che lo colsero con il giubbotto ancora infilato. Se lo tolse e poi contò i lampi che gli piovevano addosso. Seguirono la camicia, la maglietta e restò a torso nudo. Gonfiò il petto e controllò che gli si disegnassero bene i pettorali. Abbassò lo sguardo e fissò compiaciuto il ventre piatto. Il fotografo faceva il suo lavoro in silenzio, senza partecipazione. Chissà perché si era aspettato che quello si eccitasse. Ma gli uomini a quell'età e di quell'aspetto, pensò, forse non si eccitavano più. Guardando in un punto lontano, di lato alla fotocamera, si chinò a togliersi le scarpe da ginnastica. Una per volta. Scatto dopo scatto, si sfilò anche i calzini, puliti per fortuna. Quando si accinse a sbottonarsi i pantaloni, il fotografo parve svegliarsi. "Fermo così!" ordinò e fece altri scatti, riprendendolo con la mano sulla fibbia della cintura "adesso vai piano!" Come un automa, capendo che le riprese erano concentrate sulla parte inferiore del corpo, Dino si aprì i Levi's, bottone dopo bottone. Apparvero gli slip. "Con una mano e prenditi il pacco. Stringilo, fallo vedere! Accarezzati. Cerca di fartelo venire duro con le carezze che ti dai." Era una parola! Prima, mentre saliva le scale del palazzo, era tanto eccitato da temere di venire nelle mutande. E aveva paura. Ora non era più eccitato, né spaventato. Se lo accarezzò con tutta la buona volontà possibile e qualcosa si mosse. Poi, a forza di carezze, il cazzo prese forma. Se lo menò ancora e quando, su suggerimento del regista, tolse la mano, quello puntò diritto verso l'esterno, a chiedere spazio, aria. Gli sfuggì un sorriso beato e capì che il fotografo aveva immortalato anche quello. "OK! Adesso devi sfilarti i pantaloni... abbassali... poi ti siedi al divano e fai molto piano. Lentamente. Prima una gamba... si... e poi l'altra. Adesso fai vedere che non hai i peli. Passati la mano sulla coscia. Accarezzati. Si! Bene. Adesso alzati e voltati. Non gli facciamo vedere subito il cazzo! Piegati, sporgi un poco il culo... di più. OK!" Era in slip. Ormai c'erano solo quelli fra lui e la vergogna! Ma chi se ne frega, pensò. Ce l'aveva duro e questo era l'importante. Quando si eccitava, non ragionava più. Doveva godere, arrivare, raggiungere il piacere, vincere. Sia che fosse per farsi una sega, oppure con quei cazzo di videogiochi a causa dei quali era là, in mutande a farsi fotografare con l'uccello duro! Dei suoi desideri non capiva ancora niente, sapeva di voler solo godere. In genere gli bastava toccarsi. Non doveva andare in nessun posto con il pensiero, né incontrare nessuno. Gli bastavano le sue mani, con una se lo menava, con l'altra si palpava, si accarezzava ovunque, per ricordarsi quanto era bello. "Sporgilo di più, fallo vedere meglio. Adesso abbassati lentamente gli slip. Aspetta gli scatti!" gridò l'ometto, improvvisamente arrabbiato e cambiando il tono della voce "Cazzo, aspetta! Rialzali!" ordinò. E Dino si apprestò a rieseguire la manovra della denudazione. Questa volta lo fece abbastanza lentamente da consentire un buon numero di scatti e il suo sedere glabro si offrì finalmente alla macchina fotografica. "Muoviti un po' di lato. Fallo vedere di profilo. OK! Adesso passati la mano in mezzo alle gambe. Si!" Non ci aveva mai pensato. Quel movimento gli diede un brivido, ma si controllò, perché qualcosa gli suggeriva che sarebbe stato meglio aspettare per venire. Chissà quale sarebbe stata la reazione dell'ometto se lui avesse sborrato senza preavviso. Si ripassò la mano e quel brivido tornò più forte, con la mano aveva sfiorato il buco e non immaginava che là in mezzo ci fosse tanto caldo. Troppo caldo. Si abbassò e cercò di controllare gli spasmi, ma venne nelle mutande, bagnandole e sporcandosele irrimediabilmente. "Cazzo! Sono venuto!" farfugliò. "Lo sapevo io che non c'era da fidarsi... e adesso come facciamo?" Dino lo guardò mortificato, sperando in non sapeva cosa. Forse in un perdono. Quello invece aveva altro per la testa: "Quanto ci metti a fartelo tornare duro?" "Non lo so..." piagnucolò Dino, sentendosi perduto, vedendo le sue venticinquemila lire allontanarsi e sentendo invece molto più vicine le botte che gli avrebbero dato Gustavo e l'Ombra. "Tutti segaioli del cazzo! Mai uno che resista per tutta la serie delle foto!" Dino ripensò all'atteggiamento professionale dell'uomo. Non era un vizioso, pensò. Non che questo lo consolasse o aiutasse. Se ne stava là, nudo, gettato sulla dormeuse, in attesa che il cazzo gli tornasse duro. L'omino era sparito con le sue mutande per cercare di asciugarle. Nella stanza vuota c'era un silenzio assoluto. Se non avesse avuto freddo, si sarebbe addormentato. Quella tranquillità gli fece riacquistare la calma e con quella la calma sufficiente a ripensare a quanto era eccitante trovarsi là. La sua incoscienza fece il resto e si ritrovò con il cazzo duro un'altra volta. Come avvisato dall'evento, l'uomo tornò e ripresero a fare le foto. Dino indossò nuovamente gli slip, anche se erano leggermente umidi sul davanti. Mentre con la mano cercava di coprire la vergogna della macchia di sborra, aveva le mutande abbassate da dietro e tirate dal cazzo duro. "Adesso voltati e poi apriti il culo. Fai vedere il buco. Si... bravo!" Questa volta la sensazione che provò non fu dannosa come prima, ma il fresco che sentì gli procurò ugualmente una scarica di eccitazione che terminò alla punta dell'uccello e lo rese così zelante che si allargò le chiappe fino a farsi male. "OK, adesso girati e metti i pollici negli slip... di lato. Bravo! Fermo! Abbassali lentamente. Di più. Portati giù il cazzo con le mutande. Si così va bene. Tienilo fermo in giù. Adesso fallo scattare in alto. Da capo!" gridò infine e Dino rialzò gli slip e se li abbassò un'altra volta. Sempre a cazzo duro e sventolante. `Un bel cazzo' pensò `ho un bel cazzo. Lungo e diritto. Guarda quanto è dritto'. "Togliteli adesso e stenditi sul divano" riprese l'uomo insensibile alla bellezza "Mettiti a gambe aperte. Una per terra. Verso di me. Fammi vedere il buco. Accarezzalo col dito." Quelli erano misteri che non conosceva. Non si era mai toccato là in mezzo, non a quel modo. La stessa scossa di prima lo percorse e il dito con cui si sfiorò fu come risucchiato. Mentre con la destra si menava il cazzo, con la sinistra si teneva larghe le cosce. E il medio s'insinuava, dove mai nulla era stato fatto passare in quella direzione, che non fossero medicine e il termometro tanti anni prima. Fu il ricordo di quei momenti a scuoterlo. Quello strumento gelido che gli veniva infilato dalla mamma e l'immediata erezione che ne seguiva. Ma il dito era molto meglio. Accelerò il ritmo con cui se lo stava menando, poi sentì le urla del fotografo. "Che cazzo fai? Se vieni un'altra volta va tutto a puttane!" "Mi scusi, mi dispiace" mormorò, calmandosi, ricomponendosi, cercando di controllare il respiro. "Scusa un cazzo. Ho detto: accarezzati il buco! E basta!" gridò "Ora infilati il dito in bocca. Si! Tutto! Dai fai vedere la lingua. Che te lo lecchi. Adesso avvicinatelo al buco. Si... infilalo un poco. OK fermo adesso. Devo cambiare rullino. Cerca di tenerlo duro. " Quello non era un problema, lui aveva il problema opposto, cercare di non venire. Sentiva ancora nel culo come l'impronta del dito e quella sensazione si irradiava fino all'uccello che pareva muoversi per conto proprio. Si raccolse su se stesso per concentrarsi e calmarsi. Si cinse le gambe con le braccia e schiacciando la fronte con forza le ginocchia. Con quella posa sperava di salvarsi. Sentì il rumore di altri scatti, vide la luce del flash. "Queste le usiamo come finale. Sei perfetto. Adesso rimettiti come prima. Infila il dito in culo! Piano. Dentro e fuori. Si... hai una bella faccia. Non devi fingere. Sei arrapato, vero? "Si e sto per venire!" rantolò Dino. "Non menartelo più, allora! Facciamo gli scatti al buco del culo! Mettiti alla pecorina..." "Eh...?" "A quattro zampe" disse quello, finalmente ridendo "Non ci posso credere, sei proprio ingenuo. Allarga le gambe. Per questo sei così arrapato e tutto il resto! Capisco anche la faccia che fai. OK! Mi piaci così. Allargati il culo. Va bene. Adesso passa una mano da sotto e infilati un dito." Dino eseguiva come ipnotizzato le indicazioni, gli ordini che riceveva. Si penetrò con un dito, poi si mise supino e sollevò le gambe e tornò a giocare con il buco. Prima lo inumidì, infilò un dito, poi due. "Non ce la faccio più... sto per venire..." disse con voce strozzata. Era al limite, lo capì anche l'ometto che gli consentì, di liberarsi. "Vedi di sborrare con calma. Fammi fare le foto che mi servono, altrimenti dovrai tornare domani per rifare la parte finale e questo non mi va. OK?" Dino gli fece di si con la testa. Avrebbe fatto qualunque cosa pur di liberarsi della pressione che gli gonfiava l'uccello e le palle. Non credeva che il cazzo gli si potesse gonfiare a quel modo. "Stenditi e apri le gambe. Adesso non guardarmi per nessun motivo. Menatelo con calma. Quando stai per venire fermati." Dino s'irrigidì, poi sentì il corpo inarcarsi e venne, bagnandosi fin sul petto. Schizzò più volte e gli parve, nel delirio del suo orgasmo, di avvertire il flash che scattava a ogni spruzzo di sborra che gli atterrava sulla pancia. Tornò a udire la voce dell'ometto solo dopo che si fu calmato. "OK puoi pulirti adesso. Vestiti e vattene, perché aspetto gente! Ehi! Mi hai sentito? Devi andartene. Aspetto altre persone che non sono finocchi come te!" Lo colpì l'ultima affermazione. Poteva essere così? Non si era mai considerato un finocchio! E perché, poi? Che voleva dire? "Le vuoi guadagnare altre diecimila lire?" disse allora l'ometto, che evidentemente aveva cambiato idea. "Eh?" fece Dino sorpreso. "Ti ho chiesto se vuoi guadagnare altre diecimila lire." "E come?" Era incuriosito, ma l'ometto adesso lo guardava in un modo che lo metteva a disagio e questo lo spaventava. Adesso che non era più eccitato, poteva pensare meglio. "Resta ancora un po' qua!" "Io... io non voglio fare più niente!" "Faccio tutto io! Diecimila lire non sono poche e tu ne hai bisogno, no?" "Che vuoi che faccia?" chiese Dino con voce incerta. Quei soldi sarebbero stati un bel regalo, avrebbe potuto fare tante cose con diecimila lire. "Voglio solo toccarti un poco... sculacciarti, per l'esattezza!" "Sculacciarmi?" "Hai un culetto bellissimo!" "Perché vuole sculacciarmi? Che le ho fatto io?" L'uomo sorrise per l'ingenuità di Dino. "Di tanto in tanto, mi piace sculacciare bei culetti come il tuo. Non ti preoccupare. Voglio solo sculacciarti. Non ti farò nient'altro!" "Ma mi farà male?" "Certo! Tua madre non ti ha mai sculacciato?" "Eh... si, un po'... ma quando ero piccolo!" "Adesso faremo la stessa cosa, tu immagina di essere stato cattivo! Vieni qua..." e gli fece cenno di avvicinarsi, mentre lui si sedeva sulla dormeuse. Dino era ancora nudo, con le mani si copriva l'uccello e gli si avvicinò tremante. Un po' per il freddo, un po' impaurito, incerto da quello che stava per accadergli. L'uomo era piccolino, molto più basso di lui, ma lo intimoriva lo stesso. Era un amico di Angelo, doveva stare attento. "Ad Angelo non diremo niente di questo extra" fece l'ometto, come leggendogli nel pensiero "sennò quello vuole la metà, per pagare i tuoi debiti" e lo prese per la mano, attirandolo a sé. Dino si piegò docilmente finendogli sul grembo, il culetto bene in vista, i piedi e la testa che sfioravano il pavimento da un lato e dall'altro delle gambe dell'uomo. Si sentì accarezzare, rabbrividì, ma non per il disgusto. Se le era aspettate gelide e dure, ma le mani dell'uomo erano calde e morbide. Chiuse gli occhi, cercando di calmarsi e quasi riuscendoci. "Adesso ti sculaccerò per bene" lo sentì dire "grida quanto vuoi, ma non muoverti troppo!" A Dino sfuggì un singhiozzo. In passato, quando la mamma lo sculacciava, lui piangeva forte. "Mi dà fastidio solo se ti muovi" l'ammonì l'uomo "perciò stai fermo, altrimenti ti mando via e sarò costretto a dirlo ad Angelo!" Quella minaccia gelò Dino. La prima sculacciata non fu forte. La mano dell'uomo gli parve molto più calda, il culetto era più freddo. A lui sfuggì un sospiro e si preparò al seguito. Quello che venne dopo non fu così piacevole. Almeno all'inizio L'uomo cominciò a colpirlo con ritmo e passione. Prima su una natica, poi sull'altra, non tralasciando nessun punto del culetto tondo di Dino, assolutamente privo di difetti, roseo, prima che gli si stampasse ripetutamente sopra la piccola mano dell'uomo. Le sculacciate si susseguirono con movimenti regolari, ma mai nello stesso posto, mentre Dino era passato velocemente dai sospiri, ai gemiti e adesso piangeva e si disperava, ma non osava muovere il bacino dal posto in cui si trovava. L'uomo gli teneva la mano sinistra sui reni e faceva forza per tenerlo giù, ma era una pressione che Dino avrebbe potuto facilmente contrastare. Se l'avesse voluto. In realtà, il dolore che avvertiva e che, partendo dai globi delle natiche, s'irradiava alla punta dei piedi e su fino alla cima dei capelli, facendolo piangere, inaspettatamente terminava nell'uccello, che, scivolato tra le gambe dell'uomo, aveva cominciato a irrigidirsi. Dino non ragionava più. All'inizio la minaccia di svelare ad Angelo una sua defaillance, l'aveva paralizzato, assieme alla paura delle sculacciate che stava per ricevere. Poi il dolore che provava l'aveva fatto piangere e disperare. Infine c'era la confusione di scoprire che tutto questo non faceva che eccitarlo. Quella sera aveva già sborrato due volte e adesso ce l'aveva duro. Ed era sull'orlo di un altro orgasmo. L'uomo si era accorto della sua eccitazione, perché assecondava i movimenti di Dino. A ogni sculacciata ricevuta, il ragazzo si schiacciava contro le gambe dell'uomo, come per attutire il colpo e subito si sollevava per rilassare i muscoli e alleviare il dolore. Con questo movimento sfregava l'uccello sul tessuto dei pantaloni dell'uomo. Che adesso teneva le gambe strette. La mano l'accarezzò, poi Dino si sentì allargare le natiche e sfiorare il buco. Gli sfuggì un sospiro. Una sculacciata più forte delle altre lo colpì. Lui urlò e singhiozzò, piangendo forte. Poi ancora le dita leggere a sfiorargli il buchino. Adesso se l'aspettava e la sentì arrivare, urlò un'altra volta. Mentre con un dito spingeva contro il buchino, con l'altra mano l'uomo gli prese l'uccello. Completamente incurante del dolore e delle sculacciate, del culetto rosso e infiammato, Dino si sentì in paradiso. I gemiti che erano stati di dolore si trasformarono in un lamento di piacere. Era incredibilmente pronto al suo terzo orgasmo in poco più di un'ora. Il dito che aveva nel culo si muoveva lentamente ad accarezzargli le pareti umide e sensibili, la mano esperta che gli teneva l'uccello, glielo strofinava con perizia. Dino stava per sborrare. Si sentì sfilare il dito, ma con immenso piacere notò che la mano era ancora al suo posto e continuava a muoversi lentamente. Quello che non si aspettava erano le sculacciate che l'uomo ricominciò a dargli senza pietà. Adesso Dino piangeva e urlava un'altra volta, di dolore e di piacere. Il culo un'altra volta in fiamme aumentava violentemente la sensibilità dell'uccello che, stretto nella mano dell'uomo, era pronto ad eruttare. Era pronto, ma non l'avrebbe fatto, se qualcuno non l'avesse strofinato più forte. Questa consapevolezza colpì Dino come un mattone sulla fronte. Strillando, cercò di dire qualcosa all'uomo che non smetteva di sculacciarlo. Le urla erano ormai animalesche. Dino era senza fiato, sull'orlo di un collasso. La posizione a testa in giù che teneva da quanto, da un quarto d'ora, forse, non l'aiutava. Dopo un'ultima sculacciata che ottenne l'urlo più forte, l'uomo si fermò e concesse all'uccello di Dino l'ultimo strattone. Eiaculando Dino urlò ancora. Furono tre schizzi acquosi che gli erano costati un mondo di dolore, ma gli concessero una nuova consapevolezza del piacere. 2. La mano della coscienza Per quella che era la sua esperienza, un finocchio era soltanto un ortaggio, oppure un personaggio curioso. Ne aveva visto qualcuno sculettare in centro, credeva di averne visti. Gli erano sembrati anche truccati, con le sopracciglia rifatte, gli occhi anzi segnati dalla matita. Perciò non riusciva a pensare a se stesso in quelle vesti, con pantaloni attillati e magliette tanto corte da mostrare l'ombelico. Glieli aveva fatti notare Gerry quell'estate. Con questo pensiero continuò a camminare velocemente, alternando tratti che faceva di corsa. Si era fatta quasi mezzanotte e lui aveva fretta di tornare a casa. Era ad almeno mezz'ora di cammino dal suo quartiere. Lo impauriva un po' trovarsi da solo a quell'ora, da tutt'altra parte della città, forse era la prima volta che gli capitava e la cosa, più che spaventarlo, lo eccitò. Aumentò un'altra volta l'andatura e il movimento produsse un maggiore attrito fra le gambe. Le natiche gli facevano male, gli bruciavano per l'esattezza. Il tessuto degli slip sfregava sulla pelle resa sensibile dalle sculacciate, dando una sofferenza che gli ricordava com'era cominciata e soprattutto com'era finita la serata. Ricordò, rivisse, ogni momento, sborrata, dopo sborrata, sculacciata, dopo sculacciata, fino al culmine, alla sensazione provata quando, dopo lo sculaccione più forte, l'uomo l'aveva strofinato per l'ultima volta. Il dolore intenso, intollerabile, che gli era scoppiato sul culetto e irradiato a tutto il corpo, era come esploso, fuoriuscendo attraverso l'uccello. La punta del pisello gli bruciava ancora, più di tutto il culetto, per quanta forza e quanto calore aveva quella sborratina acquosa che era uscita alla fine. E gli facevano male le cosce e i reni per tutti i movimenti che aveva fatto, e la forza con cui aveva accompagnato quei tre schizzi. Gli faceva male anche il buco del culo, anzi gli bruciava per le dita che si era infilato. Prima lui e poi quel finocchio del fotografo. L'avevano costretto, si disse. "Quello stronzo... porco, è lui il finocchio! Me l'ha fatto fare per forza!" disse a bassa voce guardandosi intorno, per paura di essere ascoltato. Era solo, di notte, su un viale di periferia, ma poteva sempre esserci qualcuno ad assistere alla sua collera. Poi scoppiò a ridere. Era matto a parlare così da solo? La risata gli morì in gola, perché, ripensando al dito che si era infilato in culo, ricordò a se stesso che l'aveva fatto senza che il fotografo gliel'ordinasse. E gli era tanto piaciuto che subito dopo se n'era infilati due insieme. E a quel punto era venuto, quasi senza toccarsi l'uccello. La prima volta. "Sono un finocchio?" disse a voce ancora più bassa. La risposta gliela diede il suo cazzo, che, evidentemente non ancora sazio, gli diventò duro, non durissimo, come quando l'ometto lo stava sculacciando, ma abbastanza da impedirgli di correre come avrebbe voluto. Rallentò affannato e si piegò per riprendere fiato, contenere il respiro e calmarsi. Il cuore batteva forte e non solo per la corsa. "Sono un finocchio?" si chiese ancora, palpandosi l'uccello duro "Sono senza speranza!" concluse rassegnato. L'uccello l'avrebbe sistemato a casa, appena arrivato, ma c'era un altro problema che l'assillava. Doveva trovare altre quindicimila lire da dare ad Angelo e non voleva tornare dal fotografo. Ora si vergognava. Essere consapevole che quello sapesse di lui, lo faceva tremare dalla vergogna. Le fotografie erano state già brutte, ma accettare di farsi sculacciare per diecimila lire e sborrare così, senza vergogna, era stato terribile, ingiustificabile. Le diecimila lire che si accarezzava in tasca. In una tasca, nell'altra si accarezzava la punta dell'uccello. Una vocina dentro gli suggerì di chiedere ancora aiuto ad Angelo, ma pregandolo di proporgli qualcosa di diverso, ma ugualmente eccitante. Era la voce del suo diavoletto privato, quello stesso che gli aveva fare quei debiti, ma che adesso si era trasformato in qualcosa di più pericoloso. Al gusto del gioco, la sua cattiva coscienza aveva aggiunto la cognizione e quindi il desiderio insopprimibile di un piacere nuovo ed esaltante che nasceva dal dolore fisico. Che il diavoletto già sapesse in che modo avrebbe potuto pagare e quindi lo spingesse con premeditazione? Dino era un ragazzo sventato, attento solo a se stesso, al proprio divertimento e adesso al piacere fisico. Aveva sedici anni ed era naturale che non meditasse molto sui grandi temi della vita e su come le sue azioni potessero condizionare il presente e il futuro, ma era anche abbastanza intelligente per capire che Angelo lo aveva sfruttato e chiedergli un'altra volta aiuto, l'avrebbe messo definitivamente nelle sue mani. Tutti questi pensieri lo confusero, ma, poiché era, appunto, incauto, finì per eccitarsi di più ed abdicare ad ogni capacità di giudizio. Entrò in casa con l'idea di masturbarsi ancora e con lussuria. Si chiuse in bagno, indifferente alle proteste del padre per l'ora in cui si era ritirato. Lui non era solito sborrare tre volte in un giorno, non l'aveva fatto quasi mai, ma quello non era un giorno come tutti gli altri, quando bastava una sega, la sera, prima di andare a letto. E poi l'aveva duro un'altra volta e gli faceva male. assieme a tutto il resto di quella zona, davanti e da dietro. E anche un poco dentro. Si abbassò i jeans e gli slip, ma la cosa non gli diede soddisfazione. Li ritirò su e se li abbassò lentamente, accarezzandosi il pacco e muovendosi al ritmo di una musica che suonava nella sua testa. Fece per se stesso, e solo per sé, un vero e proprio balletto e alla fine, mutande alle caviglie e maglietta sotto le ascelle si contemplò voluttuosamente alo specchio che c'era nella cabina doccia. Ciò che vide gli piacque, ma lo sconcertò. Il ragazzo che ancheggiava in quello specchio aveva la sua vecchia, bella, faccia, ma era anche un maschio. E lui era arrapato perché vedere un cazzo, fosse anche il suo stesso cazzo, gli metteva addosso un'eccitazione mai provata prima. Con la mano destra, la più esperta, se lo menava, mentre con la sinistra, la più malandrina, adatta ai lavori sporchi, andò a cercarsi il buco. Prima indugiò ad accarezzarsi le natiche rosse, irritate, incendiate dalle sculacciate. Se le pizzicò, dandosi brividi di dolore e di piacere. Gli mancò il fiato, posò le dita fredde sulla pelle infiammata dai colpi, poi l'indice scivolò tra le natiche a trovare il suo obiettivo, il buchetto. Entrò di una falange senza incontrare resistenza, la pelle nello spacco era ancora sudata per la corsa fatta. Gli venne voglia di sentire che odore avesse là dietro, là dentro, si portò il dito al naso e fiutò. Quell'odore gli diede una scossa che quasi lo fece venire. Già che c'era, bagnò il dito di saliva e lo riportò dietro. Si accoccolò, contorcendosi e allargò le gambe. Riuscì così a fare spazio, perché la mano fosse libera di raggiungergli il culo. La pelle gli si tese e le natiche martoriate gli dettero una frustata di dolore che si trasformò subito in una scossa di piacere. Puntò l'indice bagnato contro il buco e spinse. Fu dentro in un attimo. Mosse il dito come poté per via della posizione, ma questo bastò a procurargli scosse pericolose. Lo tirò fuori per annusarlo ancora. Era quell'odore, più forte, più netto, definito. Contento del risultato, riportò la mano al culo per provarci ancora e meglio. Questa volta le dita furono due e infilarle fu più difficile e doloroso. Anche se il bruciore si trasformò subito in ondate di piacere che lo travolsero, facendolo eiaculare. Lo sperma, ancora meno denso e più acquoso di prima, gli colò dalla mano che stringeva il cazzo e scivolò per terra, sfiorandogli le scarpe. Quell'ultimo orgasmo lo asciugò e lo tramortì. Si stese lentamente, supino, se ne restò per qualche minuto per terra, con la schiena nuda sui mattoni freddi, a gambe larghe, col cazzo definitivamente moscio sulla pancia e le dita salde nel culo. Non si ardiva a ritrarle, perché gli davano l'ultima sensazione di piacere. Lunghe, persistenti, leggere scosse che gli salivano dal buco. E le dita, leggermente arcuate, con i movimenti naturali di chi si sta rilassando, continuavano un impercettibile massaggio interno. Le natiche che si godevano il freddo del pavimento cui cedevano il calore forte delle sculacciate. Le grida del padre, cui si era aggiunta la mamma, lo riportarono alla realtà. Si ricompose e uscì dal bagno. Ma il ragazzo che apparve agli ignari genitori fu un Dino assolutamente nuovo. Per la nuova e sconvolgente coscienza che aveva di sé. Il suo piacere vero non era dove aveva sempre pensato che fosse, ma proprio dietro, su una superficie liscia e tondeggiante, separata da uno spacco e poi dentro quella fessura, nel buchetto e ancora più in fondo. Era là da sempre, pronto a essere sfruttato e, ora che lo sapeva, avrebbe recuperato il tempo perduto. Quella notte, prima di addormentarsi, pensò ad Angelo e gli fu quasi riconoscente. 3. L'altra metà Angelo voleva le diecimila lire ottenute a così caro prezzo dall'ometto e le altre quindicimila, su questo non c'erano dubbi. Glielo ricordò appena Dino entrò nella sala giochi la sera dopo. Fu un po' sgradevole, anche perché, subito dopo, gli fece un complimento che a Dino parve ambiguo. "So che te la sei cavata bene, ieri sera. Hai fatto anche un extra" mormorò, perché nessuno oltre a Dino lo sentisse "e so che ti sei divertito. Vero? Hai fatto delle cose da solo, senza che nessuno ti chiedesse nulla. Per venticinquemila lire dovevi solo spogliarti e farti una sega. Tre volte sei venuto... si vede che ti piaceva..." Le guance di Dino assunsero una colorazione vicina al porpora. Il suo volto poteva definirsi angelico, per via dei capelli biondi che l'incorniciavano e dell'espressione beata che gli aleggiava sempre sulla faccia, ma in quel momento, la sua smorfia fu di puro terrore. Che qualcun altro ascoltasse, che Angelo, che adesso sapeva, lo costringesse a fare cose che non immaginava neppure. Cominciò a tremare e si controllò solo perché sentì dietro di sé la voce esitante, impaurita di Gerry. "Angelo... è con lui che devo andare oggi?" "Si..." fu la risposta infastidita "ti porti l'amico tuo! Tu..." e puntò il dito contro Dino "vai con lui! La strada la sapete tutti e due e sapete anche cosa fare!" Dino era raggelato. Parlavano certamente del fotografo. "Oggi?" "Andate!" ordinò Angelo. Dunque lui e Gerry, compagni di giochi, di scuola, di qualche sega e non di più, tornavano insieme anche per una nuova eccitante avventura che certamente avrebbero tenuto nascosta all'altro se non fosse stato che quello aveva deciso di servirsi di loro due insieme. "Così tu mi paghi un'altra rata" disse Angelo a Gerry "con te invece abbiamo finito" aggiunse rivolto a Dino. "Quante altre volte devo andare?" chiese Gerry con voce piagnucolosa. "Tu devi andarci ancora molte altre volte, a meno che il tuo amico non ti dia una mano... e allora finisci prima!" Dino si guardava intorno, stordito. Aveva capito che anche Gerry faceva le foto, che era indebitato più di lui con Angelo, ma si chiedeva che tipo di foto avrebbero fatto insieme quella sera. "Dino..." gli sussurrò l'amico pieno di speranza "mi aiuterai?" "In cosa?" "Te lo spiega lui" tagliò corto Angelo "Adesso andate o farete tardi!" "Andiamo, Dino. Vieni, per favore..." Gerry se lo tirò dietro. "Tu vai con il tuo amico" gridò Angelo sgarbato e perentorio "Fate solo quello che vi viene chiesto di fare!" Era un ordine e una minaccia. C'era poco da discutere. Uscirono dalla sala giochi a testa bassa, non avendo neppure il coraggio di guardarsi negli occhi, tanta era la vergogna che provavano uno per l'altro. Non era, pensò Dino, l'imbarazzo di dover fare quelle cose, le fotografie, ma sapere che Gerry aveva capito tutto. "Mi puoi spiegare? Adesso..." chiese Dino con la paura di sentire spiegazioni che non gli sarebbero piaciute. Poi si rese conto che dopo sarebbe toccato anche a lui di raccontare. E stette anche peggio. "Devo dei soldi ad Angelo e mi ha offerto di fare delle foto. Come a te, no?" "Quanto gli devi dare ancora?" "Boh... centomila. E tu?" "Venticinque. Tu che fotografie hai fatto?" chiese con il cuore che gli batteva forte per la paura. "Mi sono spogliato e mi sono fatto una sega. Già due volte. Una allo studio e una in un garage. In un'automobile, una Mercedes. Tu una volta sola?" "Si... allo studio. Con quello basso" e non disse altro, perché non poteva certo raccontargli delle altre cose che aveva fatto. "Ma tu ti sei messo le dita in culo?" chiese invece Gerry, senza imbarazzo. Dino avvampò e non rispose. Camminarono in silenzio per un po', velocemente perché l'appuntamento era per le otto. "Che faremo stasera?" "Forse delle foto insieme..." azzardò Gerry "a te diventa duro facilmente!" "Si, basta che mi metto a pensare!" "A pensare cosa?" "Alle solite cose..." disse vago, mentre dal culo gli saliva un richiamo inequivocabile che dopo essere passato per il cervello terminò sul cazzo, facendoglielo diventare duro, più duro del marmo. Camminarono in silenzio, poi Dino non ce la fece più. "Ma che ti ha fatto fare esattamente?" "Tutto quello che hai fatto tu..." e questo, pensò Dino, poteva dire tutto e niente. Gerry allungò il passo, per evitare che arrivassero altre domande, ma Dino era troppo incuriosito dal comportamento dell'amico per lasciar perdere. "Quanti soldi dovevi dargli?" "Quasi 200.000 lire." "E per restituirgli le prime 100.000 che hai fatto?" "Quello che hai fatto tu..." ripeté infastidito. "Ma cosa esattamente?" "Tu che hai fatto?" E questa volta fu Dino ad allontanarsi, non poteva dirlo. Farlo, l'aveva fatto e si era anche divertito, ma dirlo a un amico, a uno che lo conosceva, proprio non gli riusciva. Anche se questa persona aveva fatto le stesse cose. Anzi, forse aveva fatto di peggio, cominciava a sospettare Dino, il quale non era tanto forte in matematica, ma due conti li sapeva fare. Se per 25.000 lire s'era dovuto fare una sega davanti alla macchina fotografica, che aveva mai fatto Gerry per 100.000 lire in due volte sole? Si rincorsero così per tutta la strada fino allo studio. A turno, facendo le domande ed evitando di rispondere. Quando infilarono il portone noto a tutti e due, non si erano scambiati altro che dinieghi e poche ammissioni. L'ometto li accolse con la solita indifferenza e, invece di dirigersi verso la stanza che Dino conosceva già, quella utilizzata da studio, quella senza mobili, con il drappo e la dormeuse, s'infilò nella prima porta a destra del corridoio. A Dino bastò un'occhiata per capire che quella sera il servizio fotografico l'avrebbero fatto in una camera da letto. I due riflettori dell'altra volta erano già sistemati ai lati del letto matrimoniale, la macchina fotografica era sul treppiedi e sul comò c'era una telecamera professionale, di quelle che si posano sulla spalla, collegata ad un cavo di alimentazione. La sorpresa fu grande, ma quando si voltò verso Gerry, notò che l'amico l'aveva presa con molta più serenità e non pareva meravigliato. "E che dobbiamo fare qua?" chiese subito Dino, spaventato da ciò che essere stato finito in camera da letto poteva significare. "Angelo non vi ha detto niente?" disse l'uomo, poi si rivolse a Gerry "Dobbiamo fare come l'altra volta. Tu sai come. E tu" guardò Dino con un sorriso ambiguo e una voce falsa che raggelarono il ragazzo "fatti guidare del tuo amico. Questa volta vi darò pochi suggerimenti." Dunque Gerry... a Dino fu tutto chiaro, o quasi. Adesso aveva capito che Gerry aveva già fatto delle foto assieme a qualcun altro e questo lo disturbava, ma doversi spogliare davanti a lui, forse arrivare a toccarlo e farsi toccare, era una cosa che proprio non gli piaceva. "Insieme non mi interessa... non voglio. Me ne vado!" disse. E fece per riguadagnare la porta, quando si sentì afferrare da Gerry e poi abbracciare. "Ti prego, Dino" gli bisbigliò quello, quasi piangendo "ti prego, non te ne andare!" "Non voglio farlo insieme. Gerry... che cazzo! Non voglio..." protestò. "No, no, stai zitto... ti prego" bisbigliò facendolo tacere "Fallo per me... Se siamo amici!" "Ma perché? Andiamocene!" "Tu non sai che cosa mi faranno, se questo stronzo non fa le fotografie. Quelle che vuole lui!" "Chi? L'Ombra e Gustavo?" "Si... anche" gli sfuggì un singhiozzo che convinse Dino della sua sincerità e della gravità della situazione. Non tanto sua, perché 25.000 lire non erano un problema, quanto di Gerry che forse doveva restituire qualcosa in più di quanto gli aveva detto. "Beh? Abbiamo risolto?" chiese acido il fotografo. "Perché non facciamo come l'altra volta?" disse Dino facendo un ultimo tentativo di salvarsi dal disonore "Le foto da soli. Ci facciamo 25.000 lire alla volta e basta. No?" "No, non basta. Quello... sennò..." Gerry ci pensò un momento e poi si decise a dirglielo "Angelo... lui mi farà molto peggio di quello che dobbiamo fare noi due stasera!" Dino era turbato dalla gravità di quello che aveva udito, pur non capendo ancora bene cosa aspettarsi. "Che dobbiamo fare noi due, Gerry?" "Dobbiamo scopare!" "Beh? Allora?" gridò l'ometto "Voi due mettetevi su quel letto e cominciamo! Oppure andate a fare in culo!" "Scopare...?" "Ti prego, Dino... faccio tutto io..." e l'abbracciò. E a Dino diventò duro. Improvvisamente scordò la nausea che aveva provato a sentire fare quei discorsi, a rivedere l'ometto odioso, e l'orrore che Angelo insidiasse Gerry o anche lui stesso. Dimenticò tutto e si concentrò sul suo corpo, sulle sensazioni che provava, sull'abbraccio di Gerry che era affettuoso, pieno di premura. Non lo sfiorò l'idea che tutta quella passione fosse interessata. La accettò e la credette buona, lasciandosene travolgere. Andarono verso il letto e presto si ritrovarono uno sull'altro. Dino sotto, con gli occhi chiusi e la bocca aperta, Gerry a strofinarsi su di lui, con gli occhi ben aperti e attenti ai segnali del fotografo, mentre con la lingua esplorava la bocca di Dino. "Fate piano, stronzi" gridò l'uomo "muovetevi lentamente, tre scatti per ogni posizione. Gerry, fai finta di immobilizzarlo e tu, fingi di resistergli!" A Dino non importava di sentire quell'individuo odioso biascicare e suggerire a Gerry i movimenti. Sentì solo che l'amico gli bloccò le braccia, mentre con la lingua gli esplorava la bocca. Poi, sempre su suggerimento del fotografo, Gerry cominciò a spogliarlo, sfilandogli il giubbotto, la felpa, la maglietta, fino a lasciarlo a torso nudo. Tutto, passo dopo passo, ogni tre scatti, con il flash che li bombardava. Poi gli fu chiesto, poco gentilmente, di aprire gli occhi. Lo fece e neanche allora il suo sogno finì. Gerry era su di lui e gli leccava i capezzoli. Poi sentì un dolore acuto, perché gliene aveva morsicato uno. Tutto fu fotografato, i denti di Gerry, la smorfia di Dino, il sollievo quando non fece più male. E anche quel dolore fu sopportato, perché Gerry non smise mai di accarezzarlo. Sentiva l'eccitazione avvicinarsi al punto in cui non avrebbe saputo resistere, ma il ricordo di quello che era accaduto l'altra volta servì a calmarlo. Intanto Gerry si era sfilato gli indumenti che gli coprivano la parte superiore del corpo e sfregava il petto già un po' peloso contro quello completamente glabro di Dino. Tornavano spesso a baciarsi, perché, pareva a Dino, piacesse a entrambi. A lui certamente sì. L'ometto poi li costrinse a rivestirsi e a rifare la scena, esattamente allo stesso modo, mentre lui li filmava. Gerry gli morse tutti e due i capezzoli e Dino gridò, poi si tolsero così anche i pantaloni. L'uomo interrompeva ogni tanto le riprese per scattare altre fotografie. Li fece mettere in ginocchio, uno di fronte all'altro, per riprendergli e fotografare il culo con gli slip, prima che se li abbassassero. Dino, per distrarsi, provò a immaginare come sarebbero venute quelle foto. Con Gerry contro di lui, Gerry che aveva la pelle ambrata ed era scuro di capelli, aveva gli occhi furbi e piccoli, le gambe forti e pelose. E il sedere? Immaginò la foto nel momento in cui, raccogliendo il coraggio gli abbassò gli slip. Lo sfiorò con le dita, sentendo una peluria leggera e regolare. Gerry fece lo stesso con lui. Ma al confronto il suo era il culetto di un bambino, ancora un poco rosso per le sculacciate del giorno prima. Accarezzò il culo di Gerry. Se lo aspettava liscio, ma sentì sotto i polpastrelli come un cordone, la pelle sollevata e più dura, una specie di lunga cicatrice che attraversava il culo da sinistra a destra e poco sotto un'altra striscia e poi un'altra e un'altra ancora. Non riusciva a spiegarsi cosa fossero quelle tracce. Lo accarezzò lo stesso, non volle chiedere per non interrompere le riprese e fare incazzare l'ometto che adesso pareva essersi calmato. Sentì Gerry che gli allargava il culo, ma non aveva sentito il fotografo chiedergli di farlo. Sentì l'aria arrivargli al buco. Si staccò improvvisamente. Stava per venire. L'uomo lo capì. "Stronzo, se vieni, ti faccio riempire di botte!" gridò e questo bastò a Dino per calmarsi, controllare l'eccitazione. Gerry lo accarezzava. Aveva lo sguardo dolce, pensò Dino. "Stai attento... non mi tradire ora" sussurrò nell'orecchio e Dino pensò che l'avrebbe seguito ovunque. Gli avrebbe lasciato fare qualunque cosa. "Gerry che aspetti?" disse l'uomo che si muoveva come un assatanato alternandosi tra la telecamera e la macchina fotografica. "Si..." poi abbassò la voce e gli sussurrò in un orecchio "Dino, adesso devo scoparti. Perdonami!" "No!" mormorò, ma non ci credette neppure lui, perché continuò a baciarlo e a farsi accarezzare. Gerry lo stava coccolando come si fa con un bambino che sta per sopportare un dolore. Dino si ritrasse per guardargli il cazzo. E si rese improvvisamente conto che era molto più grosso del suo. Istintivamente appoggiò sull'asta rigida di Gerry le dita, le due che si era infilato in culo la sera prima. Come per misurare, per avere idea di cosa gli avrebbe messo dentro il suo amico. Gli passò la mano per tutta la lunghezza, con il cuore che gli batteva all'impazzata per l'emozione e la paura. Sapeva che il fotografo stava scattando e immortalando, rubando le sue espressioni, l'incredulità, la paura, l'attesa. Tutto quello che stava vivendo, per quanto spaventoso, non faceva che aumentare la sua eccitazione. Anche Gerry sembrava affascinato dalla situazione. "Non preoccuparti, Dino" gli mormorò all'orecchio "adesso ti metto un po' di lubrificante, non sentirai tanto dolore. Vedrai che ti piacerà!" Avrebbe fatto qualunque cosa ormai. "Mettiti alla pecorina, Dino!" ordinò l'uomo "E tu mettigli la crema, ma non mettertela sul cazzo... e mettigliela solo dentro, che non deve vedersi nelle riprese!" Sentì le carezze di Gerry attorno al buco e poi dentro. Una leggera pressione che gli stava facendo perdere il controllo. Stava per venire, ma incrociò lo sguardo severo del fotografo che lo minacciò sollevando il sopracciglio. Quando fu pronto, sentì la cappella di Gerry premergli sul buco. S'irrigidì, poi, come per incanto lo sentì dentro. "Rifacciamolo..." ordinò l'uomo "ce la fai, Gerry?" Rifecero tutta la scena. Questa volta Dino prestò più attenzione, sentì prima la pressione, poi il cazzo scivolargli dentro. Gerry iniziò a pomparlo. "Alzatevi sulle ginocchia. Bene! Dino, mettigli le braccia dietro la testa... va bene! Baciatevi! Si! E ora, fatti la sega e sborra!" Non se lo fece ripetere due volte e impugnò il cazzo con furia. "Stronzo, fai piano. Devo riprenderti e fotografarti! Piano, con calma. Ricordati ogni spruzzo un flash... e non muovetevi da dove siete. Devo mettere la telecamera sul treppiedi!" Non lo ascoltò più, se ne andò lontano per sentire dentro di sé il cazzo di Gerry che gli riempiva la pancia e gli spingeva qualcosa, dove non immaginava che si potesse arrivare. E poi venne. Abbandonandosi tanto che sarebbe caduto se Gerry non l'avesse sorretto. "Va bene. Toglilo, Gerry. Tu, mettiti supino!" Dino gli guardò il cazzo lucido di lubrificante, meravigliandosi che fino a un momento prima quell'arnese, che pareva davvero troppo grosso, potesse essergli passato dal buco, senza romperlo. Fu allora che avvertì come una fitta, un dolore, dentro al culo. "Gerry, fatti la sega e vienigli sulla pancia..." lo distrasse il fotografo. Anche Gerry non ci mise molto e lo bagnò con il cazzo che gli pareva di dimensioni sempre più spropositate. Poi Gerry gli crollò addosso e da lontano sentì la voce odiosa dell'ometto: "Adesso asciugatevi e riposatevi. Gerry glielo hai detto?" "Mi ha detto cosa?" "Adesso glielo spiego!" fece Gerry abbracciando Dino "Fra un poco, dobbiamo fare un'altra ripresa. Niente foto, solo con la telecamera!" "Che ripresa?" Dino era ancora un po' frastornato, il culo gli faceva male e voleva solo andarsene. Era certo di aver pagato tutto il suo debito. "Non devo dare più niente a quello stronzo!" disse cercando di alzarsi e di liberarsi dell'abbraccio di Gerry che lo teneva per le spalle e lo bloccava contro il letto. "Ti prego, Dino! Carmelo, vuole fare un altro tipo di ripresa." "Carmelo?" "Il fotografo!" "Ah... che vuole fare?" "Ha detto ad Angelo che ieri, mentre ti sculacciava, tu hai sborrato" fece serio Gerry "e vero?" Dino si sentì avvampare. Non immaginava che quella parte della storia fosse così pubblica. L'ometto aveva promesso di non dirlo a nessuno, invece non era così. Guardò Gerry e scoppiò a piangere. "Angelo ha detto che se facciamo insieme un altro filmato e lo vende bene, mi toglie tutti i debiti!" Dino lo guardava senza parlare. Piangeva piano, sconsolato. "Ti prego, Dino, aiutami!" "Che altro vuoi da me?" "Facciamo questo filmato. Ti prego, sennò me lo fa fare lo stesso, ma con altra gente!" "Chi altro? Che cosa ti fanno fare?" "Quando mi hai toccato il culo, hai sentito quello che ho sulle chiappe?" e nel dirlo si mise a pancia sotto, affondando la faccia nel cuscino. Dino non poté fare a meno di ammirargli il culetto tondo, ma solcato da alcune strisce quasi parallele, come cordoni, di pelle sollevata, un po' più rossa. Con una mano le accarezzò, facendo rabbrividire Gerry. "Non sono cicatrici, poi se ne vanno!" "Che sono?" "Mi hanno frustato, con uno scudiscio, di quelli che si usano per i cavalli. Mi hanno legato di faccia al muro a due anelli in alto. Ero come crocifisso. Avevo anche le caviglie legate allo stesso modo. Prima mi hanno sculacciato, poi frustato, fino a farmi uscire il sangue e poi mi hanno inculato. Erano in due. E lui filmava." "Ma è orribile!" "Se non facciamo il filmato stasera, Angelo me ne farà girare un altro, con quei due. Ti prego!" Erano tornati ad abbracciarsi e Gerry lo stava quasi baciando, quando rientrò Carmelo. "Ce l'avete duro un'altra volta?" I due si guardarono istintivamente davanti e Dino mostrava già una bella erezione. Gerry un po' meno, ma c'era quasi. "Va bene. Adesso facciamo così. Voi due siete sul letto, dopo avere scopato e cominciate a discutere. Non importa quello che dite, tanto non c'è il sonoro. Poi tu" e indicò Gerry "t'incazzi e sai quello che devi fare!" "Che devi fare?" chiese ovviamente Dino, allarmato. "Quello che abbiamo fatto ieri sera, che a te è piaciuto. Ti ricordi?" fece l'ometto "Ti è piaciuto, no?" Dino abbassò la testa, arrossendo per la vergogna. "Pronti? Azione!" gridò l'uomo, spazientito "Non guardate me!" Gerry l'abbracciò un'altra volta e gli leccò l'orecchio, poi gli morse il lobo. Prima piano, poi con più forza. Dino gridò, ma non si sottrasse completamente. L'uomo seguiva con la telecamera i loro movimenti e parve contento di questa improvvisazione di Gerry. E dell'apparente sottomissione di Dino. "Adesso devi guardarmi con la faccia arrabbiata" sussurrava Gerry a Dino "e dì qualunque cosa, ma guardami male, perché devo sculacciarti!" "E perché? Che ti ho fatto?" urlò serio Dino che non aveva ancora capito tutto, ma un'idea se l'era fatta. Si sentì afferrare e un momento dopo era per traverso sul letto, in mezzo alle gambe di Gerry con la pancia schiacciata contro un ginocchio. Gerry lo immobilizzava con l'altra gamba e con il braccio sinistro che gli teneva il dorso. "È vero che ti piace, eh?" gridò Gerry e cominciò a sculacciarlo. Gerry aveva le mani grandi, più dell'ometto della sera prima. Erano lo stesso calde e morbide, ma molto più grandi e facevano più male. Quando Gerry lo colpiva al centro del culo, lo faceva con tanta forza che la testa gli scattava in avanti e il dolore era insopportabile. Dino fu subito in lacrime, molto prima dell'altra volta e Gerry non si fermava mai ad accarezzarlo. Colpiva soltanto, una al centro con tutta la mano, una sulla natica sinistra e una a destra, con le sole dita. Dino non sapeva decidersi a capire quale dei due tipi di sculaccione gli facesse più male. "Fermati, accarezzalo, infilagli un dito in culo!" ordinò l'uomo dopo un poco, quando il culo di Dino era di un bel rosso cremisi. Gerry eseguì. Con attenzione, quasi con delicatezza. Con tutte e due le mani gli allargò le natiche, mentre gliele accarezzava. A Dino parve di essere in paradiso. Quello che Gerry vide e fu inquadrato dalla telecamera, fu un buco un po' slabbrato, penetrato da poco e unto di lubrificante. L'inquadratura proseguì e il viso di Dino, gli occhi chiusi, la faccia intenta a godersi le carezze furono immortalati per sempre. Gerry gli infilò prima uno, poi due e tre dita, senza che Dino protestasse. "Ti piace?" gridò allora "Prima ti ho rotto il culo adesso ti sto punendo. È questo che volevi, no?" Ricominciò a sculacciarlo, ma questa volta lo colpiva forte anche sulle cosce e giù, fino alle ginocchia, dando alla pelle una colorazione uniformemente arrossata, infiammata. Partiva dalla natica destra e scendeva, colpo dopo colpo, fino alla giuntura del ginocchio, poi passava alla gamba sinistra per risalire alla natica. Dava colpi secchi, veloci, ravvicinati. Quando raggiungeva il culo un'altra volta, mollava una sculacciata su tutt'e due le natiche, così forte e violenta che Dino accoglieva con un urlo. Gerry era affannato, era una fatica anche per lui. "Puttanella!" gridava, ogni tanto, ormai a corto di fiato, esaltandosi e immedesimandosi nel personaggio di non sapeva chi. E colpiva. Poi, senza attendere le istruzioni dell'uomo, ma ritenendo di aver sfruttato la scena abbastanza, liberò Dino dalla stretta spingendolo sul letto lontano da sé. Prima che l'amico potesse reagire, gli fu sopra un'altra volta per rivoltarlo ed esporre alla camera l'erezione che innegabilmente gli adornava il ventre. Nel farlo, mostrò anche la propria che era pure vigorosa. Dino era come in trance, sconvolto dalle botte, dalla sofferenza, ma anche dall'eccitazione che queste gli stavano procurando. Il dolore stava producendo quell'effetto esilarante che l'avrebbe portato a godere. Era sul punto di sborrare, ma qualcosa gli suggeriva di trattenersi. La percezione di ciò che si svolgeva attorno a lui era molto vaga, ma una cosa era certa, non doveva scontentare l'ometto. La punizione per sé e per Gerry sarebbe stata terribile. Mentre lui faceva questi pensieri così altruistici, l'amico si era dato da fare. Dal comodino aveva preso due paia di manette e velocemente, prima che Dino se ne rendesse conto, gli aveva assicurato i polsi alla spalliera del letto che opportunamente era in tubolare di ottone. Dino si scoprì a braccia aperte e l'uccello moscio a guardare incredulo la scena di cui era il protagonista. "No, Gerry! Che fai?" urlò, quando era troppo tardi, dimenandosi e strattonando per cercare di liberarsi "Aiuto!" quasi strillò, ma il grido gli restò in gola, rendendosi conto dell'inutilità dell'azione "Aiuto!" aggiunse come dicendolo a se stesso, perché nel frattempo, Gerry gli aveva preso il pisello in mano e lo stava riportando in vita e, per il momento era tutto quello che a Dino importava. "Questa la tagliamo" fece l'ometto "fallo tornare duro, poi continua!" Gerry si dette da fare e in un attimo, con l'aiuto di un dito che era scivolato nel culo di Dino, glielo aveva fatto indurire un'altra volta. "Adesso ti faccio vedere cosa faccio a quelli come te!" gridò convinto a un incredulo Dino, cui stava sfuggendo, s'è detto, il contatto con la realtà. Sempre fulmineo nei movimenti, mettendosi di lato, Gerry gli afferrò le gambe e le sollevò, esponendo le natiche e le cosce tutte arrossate dalle sculacciate già avute. Bloccandogliele all'altezza delle ginocchia ricominciò a colpirlo. Questa volta doveva stare attento a non dargli botte sulle palle, perciò se ne tenne prudentemente lontano. Ogni tanto passava dal buchetto, come a verificarne la disponibilità, e infilava ora uno, ora due dita. Dino si disperava, piangeva, aveva la voce rauca e, tra l'altro, gli doleva la gola, per quanto aveva gridato. Ogni volta che Gerry gli toccava il buchino e lo penetrava con le dita, gemeva e non di dolore. La sculacciata che seguiva era in genere più forte e lui urlava un'altra volta. L'ometto girava attorno al letto, riprendendo ora uno ora l'altro ragazzo, i movimenti, le erezioni. Chi le dava e chi le prendeva. Le loro espressioni erano intense e gli uccelli raccontavano l'assoluta partecipazione degli attori alla commedia. Dino sentiva avvicinarsi il momento in cui non sarebbe riuscito più a controllarsi e, quando Gerry gli infilò il dito nel culo per l'ennesima volta urlò più forte. "Basta!" "Adesso ti darò quello che vuoi e che stai aspettando" fece l'altro, completamente nella parte. Si spostò al centro del letto, allineò l'uccello al buco e si fermò. Stava per voltarsi a cercare il lubrificante. Fu la voce calma e disinteressata dell'ometto che lo fece bloccare. "Niente questa volta... vai così... voglio vedervi soffrire! Tutti e due!" Dino fu come strappato al suo sogno dal suono di quelle parole. Aspettava di sentire la pressione della cappella contro il buco, si era completamente scordato del lubrificante, ma al sentirlo nominare gliene sovvenne tutta l'utilità. "No!" urlò, divincolandosi, ma le manette da una parte e le braccia forti di Gerry sulle gambe lo tennero fermo e allineato. Buco e cappella, in attesa della spinta che l'avrebbe fatta entrare. Gerry, per conto suo, sapeva bene che con l'ometto non si doveva discutere, perciò chiuse gli occhi e spinse. Un po' di lubrificante era rimasto, non molto, ma qualcosa c'era. Il buco era allargato dalla precedente penetrazione e dalle dita che erano seguite, ma Gerry sentì la pelle della cappella come strapparsi e un bruciore intenso raggiungergli la testa. Se non si fosse concentrato avrebbe perso l'erezione. Guardò la faccia di Dino, distorta dal dolore, in una smorfia grottesca. Si guardarono per un momento, poi Gerry spinse ancora e gli fu dentro. Dino lo sapeva, l'aveva immaginato, ma pensava che fosse così. L'uccello di Gerry era ragionevolmente lungo, ma anche grosso. La prima volta si era sentito come aprire in due quando l'aveva penetrato. Questa volta, forse a causa di tutte le sculacciate, della sensibilità del culetto, quell'uccello gli parve enorme. L'aveva visto puntare al buco e poi entrare, fermarsi per fargli assaporare tutto il dolore e poi spingere ancora, per entrare tutto, allargare e aprire. Quando sentì i peli del pube di Gerry sfiorargli la pelle sensibile delle natiche gli sfuggì un urlo. "Ti piace?" chiese Gerry, affannato e concentrato. "Adesso sculaccialo" mormorò da dietro l'ometto che poi si affrettò a inquadrare la faccia inorridita di Dino. Gerry infilando le ginocchia sotto il dorso di Dino, lo sollevò un po' dal letto, esponendo meglio i lati delle natiche e delle cosce. Con le due mani cominciò colpirlo sulla parte più esposta. "Vedi se riesci a farlo sborrare così" disse ancora e Dino capì di doversi impegnare seriamente. Tutti i gesti che Gerry faceva con le braccia, prima di impattare su cosce e natiche, ormai quasi insensibili, più violacee che rosse, producevano un movimento nel culo di Dino. E lui si concentrò su quello. La cavalcata selvaggia cui lo stava sottoponendo Gerry stava avendo effetto. L'uccello gli saltava sulla pancia al ritmo delle sculacciate, mentre l'altro uccello, dentro, nelle profondità del suo culo strofinava senza pietà il tessuto che entrando aveva stirato e frizionato con violenza. "Sborra, puttanella" lo incitava Gerry, aumentando frequenza e forza dei colpi, quelli che arrivavano sulle natiche e quelli che dava con il pube e lo strumento che ci era attaccato. In un momento di lucidità, nella sua corsa disperata verso il piacere, Dino pensò a quanto dolore avrebbe sofferto dopo, a quanto male avrebbe provato dopo aver goduto, un'ora dopo, domani, ma fu appunto un momento, un attimo dopo era concentrato in un punto, proprio in mezzo alle gambe, dove stava accadendo qualcosa di meraviglioso. Gerry spingeva da dentro, ritmicamente, le mani che impattavano con il culetto davano scosse che sollecitavano tutta la pelle attorno, il suo uccello rimbalzava ad ogni movimento e un'onda di piacere si alzò. Esplose uscendo dalla punta dell'uccello, accompagnata da un urlo liberatorio. Furono cinque schizzi corposi e densi si persero sul suo torace glabro. Solo dopo l'ultimo Gerry smise di sculacciarlo, mentre continuava a pompargli il culo. Dino era esausto. "Sfilalo e sborragli in faccia" ordinò l'ometto. Non aveva perso un'espressione dell'azione intensamente drammatica che si era svolta davanti a lui e ora intendeva finalizzare la ripresa con la quarta sborrata. Gerry ubbidiente si sfilò da Dino e si spostò fino a sfiorargli la guancia con la punta dell'uccello. Stava per sborrare pure lui e gli sarebbe piaciuto farlo nel culo di Dino, ma sapeva che non gli sarebbe stato permesso. Ci mise poco, colpì Dino sul naso, sulla guancia e sul collo. Quando furono per strada, non riuscivano a guardarsi, vergognandosi uno dell'altro. Gerry gli camminava due passi avanti, Dino zoppicava dietro. Come aveva giustamente previsto, gli faceva male tutto. "Gerry..." azzardò con una vocina non gli apparteneva. Lo vide abbassare la testa ancora di più e aumentare il passo, allontanarsi di più. "Gerry..." disse più forte. "Che cazzo vuoi?" ma non si voltò. "Mi hai fatto tutte quelle cose..." gli disse e stava per piangere. "A te è piaciuto... ti ho visto. Ho visto come godevi. Sei un finocchio!" A quelle parole Dino ebbe un impeto di rabbia, lo raggiunse e lo prese per un braccio. Lo fece voltare. "Gerry..." Ma quello si girò e corse via. E a lui non restò che tornarsene nel suo quartiere, piangendo e strascicando i piedi, mentre un dolore orribile gli cresceva dentro, fuori e anche attorno. FINE lennybruce55@gmail.com